Shakespeare In Love, il gioco di specchi tra vita, teatro e cinema di un film da Oscar

Sul vincitore nel 1999 di 7 statuette grava la memoria dell’uomo che lo produsse, Harvey Weinstein, al centro anni dopo dello scandalo #metoo. Il film però resta uno spettacolo scintillante

Shakespeare In Love

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Il 21 marzo 1999, notte della 71esima edizione degli Oscar, Shakespeare In Love vince un po’ a sorpresa ben 7 statuette su 13 nomination. Prima fra tutte la più prestigiosa, miglior film, e poi quelle per la protagonista Gwyneth Paltrow, la non protagonista Judi Dench nella parte della regina Elisabetta, la sceneggiatura originale di Mark Norman e Tom Stoppard, e costumi, scenografia, colonna sonora.

La cosa fa abbastanza sensazione, visto che i contendenti di questa scoppiettante commedia sono opere ben più impegnative e, sulla carta, prestigiose. Soprattutto due film di guerra obbiettivamente straordinari: l’eccezionalmente realistico Salvate Il Soldato Ryan di Steven Spielberg, da mesi in cima al botteghino internazionale, e il filosofico flusso di coscienza de La Sottile Linea Rossa di Terrence Malick, uno degli indiscussi capolavori del cinema fin de siècle.

Shakespeare in Love
  • Fiennes, Joseph, Paltrow, Gwyneth, Affleck, Ben (Actors)
  • Madden, John (Director)

Anche per questo, col tempo Shakespeare In Love ha finito per essere considerato uno degli infortuni maggiori della storia degli Oscar, un vincitore non all’altezza dell’Academy. In verità, non è solo quella la ragione. L’altra è che lo stratega di quella vittoria è il famigerato Harvey Weinstein, al tempo deus ex machina della Miramax, all’apice di una carriera che nel 2017 sarebbe franata sotto un’interminabile serie di accuse per molestie sessuali. Tra cui anche una tentata molestia a Gwyneth Paltrow, che dal palco del Dorothy Chandler Pavilion di Los Angeles avrebbe poi ringraziatola Miramax e Harvey Weinstein per il loro instancabile supporto”.

In quegli anni in cui il produttore faceva il bello e cattivo tempo, con spregiudicate strategie promozionali di sapore lobbistico, da campagna elettorale, e proiezioni speciali, party, pubblicità arrembante per convincere i giurati dell’Academy a dare il loro voto. E mettendo a punto una formula infallibile per i suoi film, con nomi di richiamo e storie inserite in scintillanti cornici storiche d’epoca. Titoli come Il Paziente Inglese, Chicago, Il Discorso Del Re, The Artist, tutti proclamati miglior film dall’Academy, accanto a numerosissimi altri, per un computo complessivo di 81 statuette, tra cui anche le tre, lo stesso anno di Shakespeare In Love, per La Vita È Bella di Roberto Benigni, distribuito ed efficacemente supportato dalla Miramax.

Come ha ammesso qualche tempo fa dopo lo scoppio dello scandalo Mark Gill, presidente della Miramax a Los Angeles ai tempi di Shakespeare In Love: “i risultati individuali raggiunti restano straordinari, ma è impossibile oggi guardare il film con le stesse lenti di una volta”. Eppure, a rivederlo, il film di John Madden, colorato e superficiale quanto si vuole, resta uno spettacolo avvincente, grazie soprattutto a una scrittura calibrata, con dialoghi veloci e scoppiettanti come in una commedia americana anni Trenta, con in più la capacità di fondere le parole originali del Romeo e Giulietta shakespeariano con la storia vissuta dai protagonisti nel film.

La quale, ricordiamolo, inventando con sbrigliata fantasia, ricostruisce una fase della vita del giovane drammaturgo William Shakespeare (Joseph Fiennes), non ancora trentenne, in bolletta e in crisi d’ispirazione, che, abbagliato dalla bellezza di Viola De Lesseps (Gwyneth Paltrow), di ottimi natali e promessa sposa all’odioso Lord Wessex (Colin Firth), ritrova la vena acceso come un fiammifero dall’amore, riuscendo così a dar vita a una nuova opera dall’improbabile titolo provvisorio di Romeo ed Ethel, la Figlia del Pirata. E protagonista sarà proprio Viola, appassionata di teatro (e dell’aitante, romantico William). Ovviamente non nella parte di Ethel, poi Giulietta, dato che le donne all’epoca non potevano recitare bensì, sotto mentite spoglie – mentite a tutti ma non a Shakespeare – di Romeo.

Al centro Weinstein e Paltrow festeggiano la vittoria delle statuette di Shakespeare In Love

Il film risente della mano del cosceneggiatore Tom Stoppard, commediografo britannico di lungo corso, che sin dai tempi Rosencrantz E Guildenstern Sono Morti (il suo dramma più famoso che tradusse anche in un film Leone d’Oro a Venezia) ama giocare sull’intertestualità shakespeariana, animando dall’interno le opere del Bardo, frugando tra i suoi interstizi per creare storie parallele che interagiscono con quella principale – in quel caso trasformando in protagonisti due personaggi minori dell’Amleto che profumano di Beckett.

E se questo espediente funziona con un dramma, perché non applicarlo alla vita stessa di Shakespeare, reinventandola a proprio piacimento, sempre però intrecciandola alle opere – perché cos’è la sua vita se non un’estensione dei suoi drammi, e viceversa? Così nasce Shakespeare In Love, in cui fatti reali o molto presunti s’incastrano col teatro (e il cinema). La passione proibita di William per una donna d’alto lignaggio diventa il motore della sua ispirazione. E proprio l’impossibilità di quell’amore trasforma una ipotetica commedia romantica in una tragedia a tinte fosche. Mantenendo però, nella sua cornice cinematografica, i toni da autentica commedia.

In Shakespeare In Love ci sono memorie, come dicevamo, da commedia americana d’una volta – impossibile non pensare al ruolo en travesti di Katharine Hepburn ne Il Diavolo È Femmina. E c’è il gioco ammiccante degli anacronismi, per cui Shakespeare va da una specie di psicanalista, beve da una tazza gadget su cui è scritto “A Present from Stratford Upon Avon” e incrocia un barcaiolo che gli chiede di leggere il suo manoscritto, manco il Bardo fosse il redattore di una casa editrice. Però c’è anche un’affettuosa e fantasiosa ricostruzione d’epoca, con veri personaggi come Christopher Marlowe (Rupert Everett) o attori del tempo quali Richard Burbage (Martin Clunes) ed Edward Alleyn (Ben Affleck).

E c’è anche una spruzzata di femminismo, con la ribellione di Viola, forse impossibile nella realtà (sarà costretta a sposare Lord Wessex?) ma riuscita nella finzione teatrale, dove infrange il divieto d’un attrice donna (supportata da una regina Elisabetta molto avanti ai suoi tempi). Il ribaltamento dei sessi poi consente agli sceneggiatori un’altra soluzione indovinata: perché Viola recita le parole di Romeo, mentre William fa sue quelle di Giulietta, in un continuo cortocircuito tra realtà e finzione.

La parte finale dedicata alla messinscena di Romeo e Giulietta, poi, restituisce la sensazione di un autentico spettacolo, col pubblico straripante accalcato a pochissimi centimetri dal palco, talmente vicino agli attori da percepirne la fisicità, stregato e posseduto da una finzione più corposa della stessa realtà. E la formula di Shakespeare In Love, quando ben riutilizzata, funziona ancora benissimo. Si pensi al recente Cyrano Mon Amour di Alexis Michalik, un film che ruota intorno alla vicenda di Edmond Rostand e della nascita del più grande successo teatrale d’ogni tempo del teatro francese, che del capostipite ha quella stessa felicità di mescolanza tra vita e teatro, una finzione che si ribalta in verità e l’impossibile che diventa possibile.