Dopo l’Olocausto di Schindler’s list (1993) e lo schiavismo di Amistad (1997), Salvate il soldato Ryan (1998) chiude la trilogia storica di Spielberg raccontando lo sbarco in Normandia. Film che hanno definitivamente modificato la reputazione del regista, guardato prima con freddezza, soprattutto dall’Academy, come un autore disimpegnato e troppo legato ai generi.
Ma proprio il precedente fantasy Jurassic Park (1993) segnò il cambiamento: una favola nera su un parco di divertimenti con dinosauri che diventa un incubo, nel quale la realtà mostra il suo volto minaccioso. Persa l’innocenza – e fatti i conti con la sindrome di Peter Pan di Hook (1991) –, Spielberg era pronto per i temi dell’età adulta.
Salvate il soldato Ryan ha imposto un nuovo modo di raccontare la guerra al cinema. Non si era mai visto prima un tale realismo della rappresentazione, la prima mezz’ora immersa nella mattanza dello sbarco in Normandia, tra corpi dilaniati, l’odore della paura, il coraggio non come eroismo ma strategia di sopravvivenza. Spielberg mostra l’evidenza fisica della violenza, la natura intrinseca della guerra. Ma non è un massacro insensato, bensì il prezzo atroce e necessario per sconfiggere il nazismo.
Il mondo sembra apparentemente impazzito, ma sotto il caos cova una logica incarnata dal capitano Miller (Tom Hanks): non un fasullo eroe senza macchia e senza paura – ha un costante tremito nervoso e non si oppone all’assassinio a sangue freddo di prigionieri tedeschi –, ma un uomo retto che ha chiaro lo scopo della propria missione. Dall’altro lato c’è Ryan (Matt Damon), l’obiettivo dell’incarico speciale di Miller: il soldato che va trovato e rispedito in patria, perché in guerra sono morti i tre fratelli e lo Stato Maggiore pretende che la madre possa riabbracciare almeno l’ultimo figlio. La sua salvezza simbolizza l’intera missione, è il piccolo obiettivo individuale che ricapitola quello macroscopico della vittoria del conflitto.
Salvate il soldato Ryan è un’opera che testimonia il significato e la necessità del sacrificio, l’ordine più grande nel quale acquisiscono senso le apparentemente ingiustificabili sofferenze individuali. Il film in tal senso è lineare: si apre e chiude sul primo piano della bandiera americana, mentre la scelta di rimandare a casa il soldato Ryan viene motivata attraverso le parole di Abramo Lincoln.
Un tono secondo alcuni eccessivamente patriottico: una retorica però comprensibile, trattandosi della Seconda Guerra Mondiale, l’ultima in cui si poterono distinguere chiaramente buoni e cattivi. Le cose cambiarono a partire dal conflitto in Corea, che negli anni Cinquanta ispirò i primi film in chiaroscuro del cinema bellico americano, i crudi Corea in fiamme e I figli della gloria di Samuel Fuller. Poi arrivarono Prima linea di Aldrich e Orizzonti di gloria di Kubrick, nei quali i codardi erano proprio i superiori. In Salvate il soldato Ryan, invece, la linea del comando è priva di tentennamenti e l’onesto capitano non smarrisce mai la giustezza della missione e la linea di separazione tra bene e male. Un eroe certo fallibile e umanizzato, ma pur sempre un eroe.