Cyrano mon amour è un raro caso di divertimento intelligente e non intellettualistico, nel quale il racconto procede con tale brio e leggerezza da dissimulare anche le notazioni acute che contiene. Il regista Alexis Michalik traduce per il cinema un suo spettacolo teatrale e mette in piedi una macchina che s’ispira esplicitamente a Shakespeare in Love. Se nel film premio Oscar di John Madden il Bardo sommerso dai debiti e in crisi creativa risolveva l’uno e l’altra grazie a una musa che l’ispirava a comporre Romeo e Giulietta, ora si è trasportati nella Parigi del 1895 per ripercorrere la nascita della commedia di più grande successo del teatro francese, il Cyrano de Bergerac di Edmond Rostand.
Il quale però prima di scriverlo è tutt’altro che un artista celebrato, ventinovenne reduce da un fiasco colossale, ostinato autore di severi drammi in versi e in grave crisi d’ispirazione. Una crisi che si protrae per ben due anni, finché l’unica persona che crede in lui – per sua fortuna l’attrice più famosa del tempo, Sarah Bernhardt – gli fa incontrare Constant Coquelin, alla ricerca d’un nuovo copione da portare in scena in tre settimane. Che sarà, manco a dirlo, Cyrano de Bergerac: il problema è che Rostand (Thomas Solivérès) non ne ha scritto una sola parola, ed è costretto, giorno dopo giorno, a improvvisare soluzioni per imbastirlo.
Pressato dal bisogno – la mancanza di quattrini ha la meglio su qualunque crisi d’ispirazione –, Rostand per trovare idee s’aggrappa a tutte le suggestioni che la realtà gli offre. E poiché l’amico Léo (Tom Leeb), attore bello ma non brillante, chiede l’aiuto dei suoi versi per conquistare Jeanne, la donna che ama (Lucie Boujenah), Rostand capisce che il Cyrano sarà la storia d’un uomo sfigurato da un enorme naso, sensibile e di talento, che soccorre l’aitante amico nella seduzione d’una donna.
Così Cyrano mon amour diventa uno spassoso gioco di situazioni che si rilanciano tra scena e fuoriscena. E il ritmo è brillante, con dolly e continui movimenti di macchina che trasformano la storia in un elegante rondò di situazioni, figure e figurine che piroettano davanti a una macchina da presa che non conosce requie. I personaggi sono sbozzati con gusto divertito: il giovane Rostand che nel fluire della scrittura acquista progressivamente fiducia (tentennando per Jeanne), Coquelin attore d’un ottimismo trascinante ai limiti dell’incoscienza (bravissimo Olivier Gourmet, volto solitamente serissimo dei film dei fratelli Dardenne), i produttori malavitosi gestori di bordello, la prima attrice irosa e capricciosa, Monsier Honoré (Jean-Michel Martial), colto proprietario di colore d’un locale parigino che spalleggia Rostand, e così via sino ai ruoli secondari.
La ricostruzione della Parigi fin de siècle è affettuosa, tra Belle Époque e can can, Comédie-Française e fratelli Lumière (Rostand nel dicembre 1895 vede i loro primi film). Cyrano mon amour mette in scena la società dell’epoca con i suoi volti celebri, come i drammaturghi di gran successo Feydeu e Courteline, e c’è persino spazio per un improbabile incontro tra Rostand e il sommo Cechov.
Su tutto, il film offre un’immagine scintillante del teatro, innamorato della sua forza rivoluzionaria, orgogliosamente rivendicata da Monsier Honoré quando, in un momento di crisi, sprona la compagnia ricordando loro che gli attori restano sempre dei fuorilegge, come al tempo di Molière in cui venivano seppelliti fuori delle mura cittadine. Il teatro è anche quell’arte capace di creare storie così intensamente coinvolgenti da diventare vere agli occhi dello spettatore. Ciò che accade in una delle sequenze più belle di Cyrano mon amour, in cui le tavole del palcoscenico si dissolvono e gli attori si trovano a recitare in uno spazio autentico, in cui si sovrappongono realtà e finzione, teatro e cinema.