The Holdovers (nell’inglese americano vuol dire sia i “sopravvissuti”, chi “resiste contro tutte le previsioni”, che i “ripetenti”; mentre l’edizione italiana ha voluto aggiungere un titolo didascalico ma non traditore, Lezioni di Vita) è stata una delle sorprese della stagione statunitense.
Tiepido al box office, nemmeno venti milioni di dollari d’incasso, l’ottavo film diretto da Alexander Payne è tra i più accreditati nella corsa alle statuette, guidato dalle performance magnetiche e coinvolgenti del protagonista Paul Giamatti e della non protagonista Da’vine Joy Randolph, entrambi insigniti di Golden Globe e Critics Choice Awards, più nomination già incamerate a Sag Awards, Bafta e (non ancora annunciate ma certe) Oscar.
Qual è il segreto accattivante di The Holdovers? Ambientato nel 1970 in una scuola superiore per famiglie facoltose, il film inizia tratteggiando la storia del professor di storia antica Paul Hunhum (Giamatti) – burbero, pedante, detestato da studenti e corpo insegnanti tutto –, il quale viene obbligato dal preside, che lo odia perché gli bocciò il figlio di un ex allievo e generoso donatore, a fare da cane da guardia ad alcuni studenti costretti a passare le vacanze di Natale a scuola: un bulletto ricco e viziato, un atleta in rotta col padre, un duo di pivellini e, buon ultimo, Angus Tully (Dominic Sessa), ragazzo problematico e brillante dimenticato dai genitori, con la madre, felicemente risposata a un riccastro, che a stento gli risponde al telefono.
Sulla carta insomma The Holdovers parrebbe un incrocio tra L’Attimo Fuggente (il maestro che dà tonificanti e un po’ reboanti lezioni di vita), Breakfast Club (il gruppetto tipizzato di allievi “in punizione”, ognuno dei quali ricapitola caratteristiche degli adolescenti americani e non), con forse pure una spruzzata di Addio Mr. Harris, classico del cinema inglese in cui un glaciale insegnante arrivato alla fine della carriera ammette di aver sbagliato tutto e di non aver saputo dare agli studenti il calore umano di cui avevano bisogno.
The Holdovers però mette subito da parte il giovanilismo di Breakfast Club, sbarazzandosi velocemente di tutti i ragazzi tranne uno, ovviamente Angus, e allarga il ritratto alla governante nera della scuola, Mary Lamb (Randolph), rimasta anche lei nell’istituto semideserto perché, già vedova di un compagno morto a 25 anni scarsi, ha appena perso anche il figlio nemmeno ventenne, ammazzato in Vietnam dov’è andato soldato perché, ovviamente indigente benché brillantissimo studente, non aveva modo di sfangarsela (che il suo cognome sia lamb, “agnello”, suona didascalicamente ironico).
Così The Holdovers diventa qualcosa di diverso, un racconto meno altisonante e più malinconico, perfettamente nelle corde di Alexander Payne, che nella sua filmografia ha infilato una serie di ritratti di individui sofferenti e non proprio vincenti: un vedovo pensionato che non riesce esattamente a rifarsi una vita (A Proposito di Schmidt); George Clooney nel ruolo meno piacione della sua carriera (Paradiso amaro: un uomo di mezza età cui è franato tutto addosso cerca di rimettere insieme i pezzi di quel che resta della famiglia); un anziano mitomane convinto di aver vinto un milione alla lotteria (Nebraska); fino all’allegoria letterale di un paese che si è sempre voluto rappresentare grande e che si scopre piccolissimo (Downsizing). Senza dimenticare quella radiografia del mondo della scuola, piena di stoccate malevole all’ossessione competitiva, che era Election.
In The Holdovers, supportato dalla sceneggiatura di David Hemingson che poco a poco svela i lati oscuri di ogni personaggio, restano alcune delle caratteristiche principali del cinema di Payne: la fragilità strutturale di personaggi sbilenchi (che si riverbera in caratteristiche fisiche: lo strabismo di Hunhum, la slogatura alla spalla di Angus), l’elegia della sconfitta, il mito fallimentare della famiglia (Mary guarda una trasmissione tv che mette alla prova la sintonia di supposte coppie perfette che scoprono di non conoscersi per niente), lo sguardo amarognolo di fondo.
A mancare è una cattiveria autentica: perché in The Holdovers Payne non resiste alle sirene del feel good movie, in cui sì, il maestro saprà in qualche modo riscattarsi manifestando empatia e generosità, Mary troverà un’altra ragione di vita – pur consapevole che il suo dolore non è redimibile –, mentre Angus è semplicemente troppo giovane per non confidare in una seconda occasione. Perché il Natale, seppur rattoppato dal friabile cemento che unisce un terzetto familiare sui generis, è comunque ancora in grado di compiere il suo piccolo miracolo, accarezzando le esistenze ferite ma non finite dei protagonisti.
Nell’economia dell’equilibrio sottile e dolcemaro del film è fondamentale la retrodatazione al 1970. Payne occhieggia alla New Hollywood che dell’America ritrasse magistralmente la crisi: non solo manda Hunhum e Angus al cinema a vedere Piccolo Grande Uomo di Arthur Penn (che al ragazzo però interessa poco), ma riprende soluzioni di montaggio d’altri tempi, le zoomate tipiche di quella stagione, dissolvenze incrociate e persino, andando ben più indietro degli anni Settanta, antidiluviane tendine.
È un attimo perciò scivolare dall’elegia nel passatismo calligrafico bello e buono, che risuona anche in colonna sonora, con Cat Stevens e gli Allman Brothers. Però l’eleganza pacata dell’impaginazione, il buon gusto del regista, la ricetta sommessamente ottimista che non diventa mai esageratamente trionfalistica, salvano il film dagli esiti più scontati, e mandano a casa contento lo spettatore, coccolato da un placido balsamo rétro.