Già omaggiata nel 2021 con una personale del suo cinema alla Mostra del Cinema di Pesaro (e contemporanea pubblicazione di un volume curato dal direttore artistico del festival Pedro Armocida e Cristiana Paternò), Liliana Cavani giunta alla boa dei novant’anni è stata festeggiata anche dalla Mostra di Venezia in corso, che l’ha insignita del Leone d’Oro alla carriera. Il doveroso riconoscimento a una carriera altalenante ma certo incisiva (la sua trilogia su Francesco d’Assisi, l’apologo distopico dei Cannibali, il succès de scandale de Il Portiere di Notte) è stato celebrato anche con la proiezione fuori concorso del suo nuovo film, giunto dopo vent’anni dall’ultimo, L’Ordine del Tempo, ispirato al saggio omonimo del fisico Carlo Rovelli, immediatamente distribuito nei cinema.
La storia, scritta dalla Cavani insieme a Paolo Costella, immagini un gruppo di vecchi amici, benestanti, colti e cosmopoliti, che si riuniscono in una elegante villa sul mare a Sabaudia per festeggiare i cinquant’anni di Elsa (Claudia Gerini), moglie di Pietro (Alessandro Gassmann). L’arrivo di Enrico (Edoardo Leo), fisico di statura mondiale, è accompagnato da una notizia funesta, l’avvicinarsi di un enorme meteorite, il cui impatto, distruttivo, con la Terra, parrebbe quasi certo.
Il mondo come lo conosciamo, insomma, è agli sgoccioli. Curiosamente, è la stessa premessa di Don’t Look Up. Ma lo svolgimento non potrebbe essere più differente. Adam McKay punta sul taglio satirico e grottesco, in cui l’approssimarsi della fine funziona da detonatore di tutte le peggiori attitudini di una società giunta da un pezzo al capolinea, amplificandone le tendenze irrazionaliste, negazioniste, le pulsioni egoiste e anche autodistruttive, in un grandioso, sgomento (e divertentissimo) ritratto di una strutturale e non più arginabile idiozia collettiva.
L’Ordine del Tempo invece si srotola invece come un serioso e pettinato dramma borghese, in cui la piccola comunità di privilegiati posta di fronte all’estremo non perde mai la compostezza, discettando di fisica, filosofia, teologia, protetta dalla compagnia di buoni libri e coccolata dalla servizievole cameriera peruviana – evidentemente le differenze di classe continuano a valere anche in situazioni di emergenza, diversamente da quanto accadeva in un altro recente racconto apocalittico, Triangle of Sadness, in cui buone maniere e gerarchie sociali finivano totalmente a gambe all’aria.
Nel consesso di amici ogni personaggio ha il suo ruolo in commedia, con una tendenza didascalica all’esemplarità: il mago della finanza Viktor (Richard Sammel) di fronte alle notizie sempre più allarmanti si appiglia al buon andamento della borsa per asserire che non c’è nulla di cui preoccuparsi – ed è ovviamente il simbolo della grettezza di una cultura materialista degradata; c’è l’anziana suora (interpretata dall’iconica Angela Molina) che espone le ragioni della fede (“suprema libertà fuori del tempo”); mentre i fisici (tanti, troppi) esprimono il punto di vista spassionato di un’oggettività razionale, la cui unica cura, nel generale afflato umanista della Cavani, sta in una generica e scontata forza dei sentimenti, che trova la sua traduzione nella frustrante ma “intensa” storia tra Enrico e Paola (Ksenija Rappoport), la quale ha sposato Victor, ma col cuore a battere eternamente per il suo amore dei vent’anni.
D’altronde, come dice Elsa, sposando un romanticismo da adolescenti, nella vita c’è posto per un solo grande amore. Che nel suo caso non è Pietro. Il quale però pare accettare di buon grado la situazione, come fanno tutti ne L’Ordine del Tempo, che più che uno sgomento ritratto della fine sembra un film corale alla Ferzan Özpetek, in cui l’asteroide che s’approssima di gran carriera offre l’occasione per togliere l’ultimo velo d’ipocrisia, permettendo a tutti di dire fino in fondo la verità, facendo trionfare i valori della famiglia allargata e di rapporti felicemente fluidi.
Ma l’emergere dei segreti e delle bugie (che stringi stringi come quasi sempre nei film italiani, hanno a che vedere con storie di corna) non alza mai la temperatura drammatice né satura le immagini di un film senza stile, inerte, in cui ogni rivelazione viene sofficemente digerita da un ceto medio riflessivo di adamantina educazione progressista, per il quale anche le confessioni più tremende dette pubblicamente si sciolgono nella garbata accettazione di una comunità civilissima.
È un mondo ideale quello de L’Ordine del Tempo, in cui non è solo il tempo a non esistere, come ripete continuamente Enrico, ma anche la paura autentica, le pulsioni innominabili, le umane imperfezioni, tutte decantate dentro modi assennati che metabolizzano istantaneamente ogni dolore, stemperando l’eventuale residuo di comprensibile frustrazione nei momenti epifanici di una canzone di Leonard Cohen ballata in circolo dalla combriccola – cameriera esclusa, naturalmente; progressisti sì, ma manteniamo le distanze fino alla fine – o nella tonificante visione collettiva de La Febbre dell’Oro di Chaplin.
In più c’è il condimento di battute altisonanti, in bilico tra ridicolo involontario – “Prima che arrivi questo maledetto coso voglio ubriacarmi e correre nei boschi come una baccante” – e cattivo melodramma – “Non ho mai voluto figli con lui, non volevo che non somigliassero a te”. Inutile dire che tutto finirà per sgonfiarsi come un palloncino, perché nemmeno l’asteroide è in grado di porre fine alle abitudini inveterate di quegli incorreggibili di italiani, che non prendono mai veramente nulla sul serio e parlano parlano, ma non cambiano mai. Buono però il gruppo di attori, senza i quali il film mostrerebbe con ancora maggiore evidenza i suoi limiti.