Con Don’t Look Up, il film targato Netflix che dopo un breve passaggio nei cinema atterrerà sulla piattaforma dal 24 dicembre, Adam McKay costruisce un racconto di ampio respiro, che mescola ansie apocalittiche (impossibile non sentire un riflesso dell’atmosfera pesante post Covid) e preoccupazioni ambientaliste, fusi in una satira amara e divertente sui nostri tempi, come diceva un tale, “disperati ma non seri”.
La situazione in realtà, è terribilmente seria. Due scienziati, il professor Randall Mindy (Leonardo DiCaprio) e la dottoranda Kate Dibiasky (Jennifer Lawrence) hanno scoperto una cometa di nove chilometri di diametro che si sta dirigendo verso la Terra. L’impatto avverrà entro sei mesi e, se i governi del mondo non faranno qualcosa, distruggerà l’intero pianeta. I due informano della cosa l’Ufficio di Coordinamento della Difesa Planetaria (“esiste davvero!” annuncia una sovrimpressione in pieno stile Michael Moore) è ottengono un appuntamento col presidente degli Stati Uniti Janie Orlean (Meryl Streep). La quale però, insieme al capo di gabinetto, che caso vuole sia suo figlio (Jonah Hill), è più preoccupata degli scandali in cui annaspa la sua amministrazione (la nomina di un candidato alla Corte Suprema impresentabile), e tende a ridimensionare gli allarmismi dei due esperti.
Randall e Kate decidono di rivelare la cosa ai media. E in men che non si dica si trovano risucchiati nel mondo dell’informazione, tra quotidiani che pensano di fare lo scoop arrembante alla Watergate, trasmissioni televisive con presentatori che puntano a trovare il risvolto divertente in qualunque notizia, l’enorme bolla di internet, in cui tra rilanci, meme social, deformazioni accattivanti, negazionismi, l’allarme lanciato dai due scienziati finisce per dissolversi in una enorme, tragica, isterica risata collettiva.
Adam McKay ha scelto per Don’t Look Up una chiave forsennatamente grottesca. E se forse si stenta a trovare qualcosa di autenticamente nuovo nel tono del racconto, se ne apprezza la capacità di sintesi, nel senso che il regista e sceneggiatore mette insieme tutto quanto che c’è di più allarmante per ottenere una fotografia veritiera dell’impazzimento della nostra epoca. La presidente degli Stati Uniti sfacciatamente nepotista che esibisce nella stanza ovale le sue foto con star del cinema (Steven Seagal!) è una versione appena deformata (o persino ammorbidita) di un Donald Trump in gonnella, volgare e populista.
Non può mancare il tycoon multimiliardario del settore tecnologico (Mark Rylance, con quell’aria messianica e ispirata tra Steve Jobs ed Elon Mask), che ha inventato un cellulare settato sulle nostre emozioni e che ha sulla cometa delle mire consistenti. E intorno alla notizia, secondo quel modello tra fake news, minimizzazioni e prese in giro dei quali siamo tutti ampiamente edotti, l’informazione si polarizza immediatamente. Mezzo mondo dice di guardare in alto, affidandosi all’evidenza scientifica e ai nostri occhi, l’altra metà invita a tenere lo sguardo in basso, credendo a incantatori e demagoghi di turno.
Adam McKay in Don’t Look Up a tratti sembra guardare al modello alto del racconto grottesco alla Dottor Stranamore, per esempio nel personaggio dell’eroe americano (Ron Perlman) scelto per condurre la missione contro la cometa, un relitto maschilista e sessista di un’altra epoca che ricorda il maggiore “King Kong” del film di Kubrick, il pilota d’aereo che pazzo di ebbrezza cavalca l’ordigno nucleare che scatenerà la fine del mondo.
Traspare qualcosa di questa esaltazione autodistruttiva, di questo fremito di piacere apocalittico anche in Don’t Look Up. È questo la ragione per cui l’anchorwoman Brie (Cate Blanchett) trova attraente il professor Mindy, idealista che si fa sedurre dalle sirene della fama. “Dimmi che moriremo tutti”, chiede eccitata al suo cavaliere che annuncia l’apocalisse per portarselo a letto. Forse è qui il sottofondo autenticamente tragico di questo film, il senso di una felicità oscura e sinistra che ci attrae irresponsabilmente, e freneticamente, verso il buco nero della catastrofe terminale.
Adam McKay non trova qui la stessa forza del suo capolavoro La Grande Scommessa, che per scavare dentro la crisi finanziaria dei mutui subprime trovava uno stile originale pieno di infrazioni e deviazioni. Qui il tono è mantenuto sul basso continuo satirico che, sempre più avvicinandosi verso il finale, rivela un moralismo di fondo venato di sentimentalismo. La fotografia dei nostri tempi ha un che di letterale, giusto un po’ estremizzata, e in questo diverte ma non sorprende. Colpisce però l’urgenza bulimica della narrazione, che ha l’ambizione autentica di raccontare la sublime idiozia contemporanea, perfettamente simboleggiata dalla canzoncina Just Look Up della popstar Riley Bina (Ariana Grande), in cui il messaggio terrificante sulla fine del mondo è annegato dentro gorgheggi ed effetti carezzevoli da brano plasticoso di successo. E il pubblico si fa cullare dalla forma soffice e accattivante, e canta insieme alla star, trasognato e dimentico.