I Migliori Giorni, le ambizioni sbagliate della commedia italiana

Massimiliano Bruno ed Edoardo Leo dirigono un film a episodi che vorrebbe raccontare senza sconti un paese in crisi. Ma la qualità della scrittura e è tragicamente al di sotto delle intenzioni

I Migliori Giorni

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Primo film italiano in sala del 2023, I Migliori Giorni rispolvera, aspirando alla franchezza di sguardo civile della mai troppo rimpianta commedia all’italiana, il formato del racconto a episodi, collezionando un quartetto di storie che puntano uno sguardo franco e sconsolato sul cinismo dilagante del paese (supposto) reale.

I coregisti Edoardo Leo e Massimiliano Bruno si dividono equamente il lavoro, dirigendo due episodi ciascuno, ambientati durante dei canonici giorni di festa. La Vigilia, diretto da Leo, è incentrato su un cena natalizia a casa della deputata Anna Foglietta, cui partecipa pure il segretario del partito, cosa che potrebbe avvantaggiarla per la carriera. Ma ci sono da tenere a bada i due fratelli (Leo e Bruno), agguerriti pro vax e no vax in eterno conflitto familiare. A Capodanno (regia di Bruno), Max Tortora è un imprenditore truffaldino che per ripulirsi l’immagine passa la notte di San Silvestro alla mensa dei poveri. Ma il suo ex autista licenziato dopo uno scandalo, Paolo Calabresi, è in cerca di vendetta.

Il romanticismo di San Valentino (di Leo) è messo a dura prova da incroci di coppia e tradimenti: Valentina Lodovini e Luca Argentero stanno insieme stancamente da venticinque anni, lei vorrebbe provarci con la sua dipendente Greta Scarano, lui vorrebbe spassarsela con la giovanissima amante Maria Chiara Centorami. Ultimo episodio, 8 Marzo (Bruno): la conduttrice tv Claudia Gerini deve chiedere pubblicamente scusa per un servizio sessista sulla donna ideale che ha causato una bufera di proteste sui social.

Sintomatico che I Migliori Giorni venga proposto da produttori (Lucisano) e distributore (Vision) quale commedia italiana per le feste. Fino a qualche anno fa il film del Natale era il cinepanettone targato De Laurentiis: ma le gag ridanciane di Boldi e De Sica avevano dietro un paese, almeno apparentemente, in salute economica, in cui ci si poteva permettere il lusso di strizzare l’occhio – ridendone complici e senza rischio di conseguenze pratiche – alle nostre piccole e grandi meschinità. Oggi, dopo un quindicennio di crisi materiali, sociali, sanitarie persino, l’aria che tira è cambiata: il senso di frustrazione è palpabile, come pure l’insicurezza per stili di vita e consumo che non si sa fino a quando sarà possibile permettersi. Ciò ha condotto in maniera abbastanza naturale a commedie dal tono inequivocabilmente più cupo, che tradiscono un bisogno di serietà, di uno sguardo meno accomodante verso i noi stessi che siamo diventati.

A conferma della giustezza dell’idea è arrivato un film dagli esiti di botteghino eccezionali come Perfetti Sconosciuti (2016), con la sua chirurgica, malevola disamina degli italiani di oggi. E poiché nulla come il successo è in grado di confermare la bontà di un principio, da allora quello è divenuto il modello cui ispirarsi per una commedia adulta più acre che allegra (infatti pure ne I Migliori Giorni si ride pochissimo) che sappia, come si dice, far pensare e insieme però “sbigliettare”.

Il bel film di Paolo Genovese aveva rappresentato in fondo la conferma e la punta dell’iceberg di una tendenza già in corso. Lo dimostrano proprio alcuni film dell’altalenante Bruno, che prima di impelagarsi in cose discutibili come la trilogia di Non Ci Resta Che il Crimine, già nel 2012 aveva firmato un racconto corale e morale – populista e arruffato, e però vitale – come Viva l’Italia e nel 2015 la dignitosa commedia civile Gli Ultimi Saranno Ultimi. Lo stesso vale, ancora di più, per Edoardo Leo, dal bell’esordio familiare e intimista 18 Anni Dopo (2010) all’elogio della piccola comunità alternativa di Noi e la Giulia (2015), sino al sottovalutato ritratto di italiani al tempo dei social di Che Vuoi Che Sia (2016).

Tutti film mossi da un’ambizione di racconto almeno moderatamente contropelo del paese reale. Ma è proprio il paese reale che manca clamorosamente ne I Migliori Giorni (il cui titolo di lavorazione era addirittura I Peggiori Giorni), che sconta la mancanza di una scrittura capace di descrivere puntualmente il contesto sociale. Non basta mettere in scena un campionario di personaggi proverbialmente sgradevoli per ottenere un affresco credibile della cattiveria dell’Italia dei nostri tempi. È necessario che quei personaggi posseggano anche una consistenza verosimile, con tratti che non si limitino a ripetere stereotipi consolidati.

In questo senso è esemplare il personaggio dell’imprenditore interpretato da Max Tortora, il quale sottolinea continuamente il dispregio in cui ha i disgraziati con cui deve passare l’ultimo dell’anno. L’episodio è concluso da un monologo di purissimo e volgare odio verso tutto e tutti: il cui cinismo suona grave, ma ridondante e fasullo, perché nella sua apocalitticità è generico, indirizzato a tutti e in sostanza a nessuno. E gli altri personaggi, la moglie ex escort, la figlia viziata e cocainomane, il ragazzo pulito che gestisce la mensa, la giornalista professionista con sguardo e coscienza limpida, sono figurine di cartapesta intagliate nel nulla, senza alcuna relazione col famoso paese reale che si vorrebbe fotografare.

Questo poi per tacere del vizio inveterato di queste commedie italiane, che dimenticano il principio cardine del realismo dai tempi di Balzac, ossia che la società capitalista va raccontata ricordandosi che a ogni oggetto è attaccato un cartellino con il prezzo e quindi, per risultare credibili agli occhi dello spettatore, bisogna sempre spiegare l’origine del benessere ostentato. E invece, anche ne I Migliori Giorni si mettono in scena vite esageratamente affluenti, con appartamenti a due piani e uffici high tech nei quali pero, a parte millantate riunioni transoceaniche, resta sempre imperscrutabile cosa facciano veramente le persone che ci lavorano, che passano da un massaggio al centro benessere alla cena nel ristorante più alla moda. Come il personaggio di Argentero, reporter che dice “ho già consegnato il pezzo al giornale”, e bighellona per il resto della giornata nella sua casa di design a organizzarsi la tresca con l’amante: e la verosimiglianza va immediatamente a farsi benedire.

L’episodio dedicato a San Valentino tocca il punto più basso, testimoniando però con chiarezza qual è l’idea di realtà di questo tipo di film. Che consiste semplicemente nell’innestare sul solito copione qualunquista delle notazioni aggiornate di costume, con i brividi saffici così di moda dei giochi di seduzione tra Lodovini e Scarano, osservate però secondo i moduli di un “male gaze” decisamente voyerista.

Certo, il maschilismo è un limite storico della commedia italiana, in cui sono sempre stati gli uomini a raccontare le donne. Sarà anche per questo che 8 Marzo prende di petto la questione di genere con l’anchorwoman costretta dagli autori uomini del programma (guidati da Stefano Fresi) a fare da capro espiatorio. Solo che nella programmaticità dell’assunto, l’episodio ha la stessa profondità della televisione che fa il personaggio interpretato dalla Gerini, trasformandosi in uno schematico “uomini contro donne” pieno di affermazioni più altisonanti che analitiche (“veniamo da migliaia di anni di cultura dello stupro”), espresse con un’aggressività costante il cui tono enfatico e surriscaldato sopperisce all’esilità delle argomentazioni. Che vengono chiuse da un pistolotto didascalico che prende in prestito delle parole di Monica Vitti, usata a mo’ di santino super partes.

Col che I Migliori Giorni scioglie nella retorica tranquillizzante la complessità dei temi che vorrebbe agitare – accade pure nel primo episodio, in cui il pentolone delle recriminazioni familiari sobbolle fino a concludersi in un “volemose bene” del tutto posticcio. E volendo, l’unico pezzo di realtà che il film è in grado di far filtrare non sta nel cinismo di maniera, ma nella costante aria pesante di rissosità, permalosità, irascibilità, tra famiglie spezzate e odi unilaterali. Se di qualcosa è sintomo I Migliori Giorni lo è malgrado le sue incertezze di scrittura, in virtù del vecchio principio secondo il quale qualunque opera non può fare a meno di essere in qualche modo figlia e specchio del proprio tempo. E questi sono tempi di rabbia diffusa, di una società malmostosa, stanca e infelice.

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