Perfetti Sconosciuti di Paolo Genovese è il caso più importante del cinema italiano degli ultimi anni. Lo è persino più del fenomeno Checco Zalone. Perché quest’ultimo, dall’alto della cifra da capogiro di 220 milioni di euro incassati in cinque film, è un esempio non imitabile di successo legato all’individualità irripetibile del comico Luca Medici. Mentre invece Perfetti Sconosciuti, oltre 17 milioni al botteghino nel 2016, costituisce con la sua riconoscibile struttura da commedia amara una ricetta potenzialmente replicabile.
Così puntualmente è accaduto, da parte di un’industria sempre a caccia di formule da sfruttare. Quella nazionale ovviamente: basti pensare a un film come A Casa Tutti Bene, che con lo stile più plateale di Gabriele Muccino riprende l’idea di un gruppo di persone che all’interno di una cornice definita di tempo e luogo si confronta in un gioco al massacro di verità inconfessate, tradimenti, frustrazioni esibite. All’estero poi, Perfetti Sconosciuti è diventato un format, all’origine di un numero esorbitante di remake: ben 21, comprendendo quelli in lavorazione o sospesi per l’emergenza pandemica, tra cui una versione statunitense in corso d’opera con Issa Rae.
- Attributi: DVD
- Rohrwacher, Smutniak, Giallini, Mastandrea, Foglietta, Battiston, Leo...
Qual è dunque il segreto della formula creata da Paolo Genovese insieme al nutrito team di sceneggiatori (Filippo Bologna, Paolo Costella, Paola Mammini. Rolando Ravello)? La trama è molto lineare: una cena casalinga di un gruppo di quarantenni amici da una vita, tre coppie e un single che dovrebbe presentare la sua nuova fidanzata che, però, non viene. La padrona di casa, la psicologa Eva (Kasia Smutniak), sposata al chirurgo plastico Rocco (Marco Giallini), ha la malaugurata idea di proporre un gioco: mettere i cellulari sul tavolo per condividere pubblicamente conversazioni e messaggi dei sette commensali.
“Ognuno di noi ha tre vite, una privata, una pubblica e una segreta”: questa frase di Gabriel García Márquez è stata il detonatore che ha spinto Paolo Genovese a scrivere Perfetti Sconosciuti. Chi non ha un segreto da nascondere? Il risultato nel film ovviamente è deflagrante: il privato, ignoto persino ai propri coniugi, si ribalta nel pubblico. E affiorano magagne, confidenze imbarazzanti, tradimenti. L’apparente armonia della combriccola si sfalda, rivelando doppiezze e punti deboli di ognuno. Va in crisi il rapporto di lungo corso tra Lele e Carlotta (Valerio Mastandrea e Anna Foglietta), quello dei neosposini Bianca e Cosimo (Alba Rohrwacher ed Edoardo Leo). E si capisce perché Peppe (Giuseppe Battiston) sia venuto a cena senza la nuova fidanzata.
La struttura di Perfetti Sconosciuti è quella d’una commedia parlatissima d’impostazione teatrale con unità di tempo e luogo – infatti Genovese l’ha preparata provando per giorni il testo insieme a sette attori giovani, non quelli del film, per capire a fondo il funzionamento drammaturgico della sceneggiatura. A questo si aggiunge il tema della tecnologica, della “scatola nera” del cellulare, come viene definito, dispositivo in cui sono depositati i nostri segreti, il lato oscuro di ognuno di noi. Questo semplice ma geniale meccanismo ha creato l’immedesimazione nel pubblico, che s’è riconosciuto in una condizione che ci accomuna, con la vita ormai interamente scandita dai telefonini, divenuti il filtro attraverso cui passano i rapporti umani, capaci di connetterci, ma anche di mascherarci e dividerci.
Bisogna riconoscere il merito a Paolo Genovese, che veniva da una serie di commedie di successo più leggere, di avere scommesso su un racconto più adulto e condotto fino in fondo. Con un modello narrativo da un lato, come dicevamo, teatrale, dall’altro ispirato alla cattiveria della commedia all’italiana classica, e in particolare di Ettore Scola, anche per la capacità di offrire spazio paritetico a uomini e donne.
L’altro punto di forza è in un gruppo di attori convincenti e affiatati, che raggiungono la loro piena maturità e che non arretrano di fronte alle sgradevolezze dei loro personaggi, fornendo un non confortevole ritratto generazionale d’una borghesia sostanzialmente benestante. E puntuali sono sia la scrittura, che delinea accuratamente ognuno dei sette personaggi, sia la regia di Genovese, che si muove con scioltezza tra campi, controcampi e totali senza che far sentire la pesantezza dell’impianto teatrale, optando saggiamente per una durata che non arriva all’ora e quaranta.
Qualche perplessità però resta. Perché i colpi di scena sono sin troppo numerosi. E perché in gran parte i segreti e le sofferenze hanno quasi sempre a che vedere con questioni di sentimenti e tradimenti. La coppia e la famiglia restano la cornice, l’universo di riferimento di Perfetti Sconosciuti. In cui la separazione fisica dei personaggi confinati nella casa si raddoppia in una sorta di separazione metaforica dalla società, di cui non giunge mai nemmeno un’eco lontana. I sette protagonisti s’affacciano dalla terrazza casalinga – che non raggiunge l’esemplarità e la forza di quella di Ettore Scola – per scattarsi un selfie e per guardare un’eclisse che rimanda in modo scopertamente simbolico alle loro doppiezze. Non affiora mai un’interferenza tra il loro microcosmo e il macrocosmo che vi ruota intorno, coi personaggi ostinatamente chiusi dentro il proprio privato, il perimetro minimale e un po’ meschino di interessi individualistici che non superano mai, letteralmente, la soglia dell’appartamento.
Perfetti Sconosciuti resta però una commedia incisiva. Per la compiutezza delle singole pagine – il dialogo a viso aperto tra Rocco e la figlia diciassettenne a proposito di sesso e “prima volta”. E per un finale che apparentemente ribalta l’assunto della vicenda e che invece, nel suo meccanismo da “facciamo finta che”, fa emergere ancore più nette le ipocrisie di fondo. E che, allo stesso tempo, invece di servire una morale preconfezionata allo spettatore, lo sollecita a trarre delle proprie conclusioni, che non riguardino solo il giudizio espresso sui personaggi, ma, in uno sforzo di immedesimazione più sincero, anche il giudizio su di sé. Perché al fondo, il vero tema del film non sono i segreti non detti che ci rendono sconosciuti agli altri, ma quelli inconfessati che ci rendono sconosciuti a noi stessi.