La storia di Un Mondo a Parte comincia dal maestro di scuola elementare Michele Cortese (Antonio Albanese) il quale, dopo trentacinque anni di insegnamento, si ritrova deluso e scoraggiato, avendo completamente smarrito le ragioni che lo avevano spinto, in un’emigrazione che in Italia è sempre stata considerata “al contrario”, di scendere dal Nord della sua Lodi nella periferia romana in cui confidava, sbagliandosi, ci fosse un contesto desideroso di abbeverarsi alla fonte della cultura emancipatrice. Più o meno la stessa situazione di partenza di Grazie Ragazzi, il precedente film di finzione di Riccardo Milani, sempre sceneggiato a quattro mani con Michele Astori, nel quale Albanese interpretava invece un attore fallito che attraverso un’esperienza didattica in carcere ritrovava la scintilla della vocazione.
Michele Cortese (nomen omen) la sua vocazione spera di riaccenderla cambiando aria, cercando il il senso della missione nel gelo delle nevi dell’inverno abruzzese, in un paesino della Marsica, dove va a insegnare in una scuola elementare con pochissimi alunni e una vicepreside, Agnese (Virginia Raffaele), nata cresciuta e formata in quelle terre, e perciò ostinata a fare qualunque cosa pur di tenere aperto l’istituto intitolato a Cesidio Gentile (altro nomen omen) detto “Jurico”, massaro di pecore e poeta semicolto, un autodidatta la cui opera fu lodata persino da Benedetto Croce.
Il cittadino Michele arriva bel bello in mocassini, la testa piena di ecologia libresca, decrescite felici, poesia dei borghi di montagna e magia del foliage. Però, superato lo shock iniziale, riesce ad adattarsi al contesto, scrostandosi di dosso quel tanto di retorica metropolitana sulla meraviglia della natura e comprendendo la fatica di luoghi in cui manca una progettualità – con palestre e piscine diroccate, costruite e mai messe in funzione –, dove vive una comunità “abituata a perdere una cosa dopo l’altra”. Quando le cose sembrano girare, giunge la ferale notizia della minaccia della chiusura definitiva della scuola: e allora comincia la corsa di Michele e Agnese a raccattare in giro bambini per raggiungere il numero minimo di presenza richieste dal Ministero. Dove trovarli, in un territorio in cui il tasso di natalità è sottozero?
Riccardo Milani in Un Mondo a Parte conferma la sua attitudine gentile e fiduciosamente democratica, ricorrendo al suo schema tipico che, partendo da un incontro/scontro di culture e civiltà (come era anche nel suo film migliore, Come un Gatto in Tangenziale), mescola l’impegno civile con toni da commedia sorridente. Per irrobustrire la verosimiglianza dell’impianto, Milani ricorre persino ad alcune marche canoniche della lezione neorealista. Gira in una location autentica, un ex istituto abbandonato che fa rivivere come scuola Cesidio Gentile. E poi chiama tanti autentici abitanti di quelle zone a interpretare i personaggi di contorno accanto ai professionisti Albanese e Raffaele, secondo quel principio dell’“amalgama” che André Bazin indicava come fattore rilevante dell’estetica neorealista, con la sua mistica dell’attore “preso dal vero”.
L’effetto però è quasi da neorealismo rosa aggiornato, perché il supposto realismo è piegato alle necessità di una commedia molto più convezionale, coi suoi snodi narrativi accomodanti e un eccesso di sentimentalismo. Così in Un Mondo a Parte la scrittura si fa meccanica, col buonismo da eterno Belpaese accogliente verso tutti, cattivi buffoneschi e inoffensivi, stonati picchi melodrammatici al ralenti e la prevedibile sottotrama romantica tra Michele e Agnese.
Certo, poi in qualche modo lo spettatore finisce per accettare la favola per la sua disarmata sincerità. È sincero Milani quando fa dire ad Agnese che “a 1400 euro al mese siamo noi insegnanti la nuova classe operaia”. E non manca la capacità di infilare gag divertenti: dai paradossi di una didattica che per sentirsi aggiornata assegna compiti su “La transizione ecologica da Croce a Greta Thunberg”, al momento in cui una coppia di genitori del luogo manda a quel paese Michele e le sue farneticazioni sulla “restanza” – in cui Milani si prende il rischio di citare un libro per davvero, quello dell’eccellente antropologo Vito Teti con le sue sentite ricerche sul recupero del senso dei luoghi di paesi abbandonati o in via di sparizione.
I problemi del suo cinema restano però sempre gli stessi: uno sguardo eccessivamente pacificato e una lingua cinematografica elementare, che non riesce a tradurre la storia in un’autentica visione. Se il limite di Michele sta nel suo giungere pieno di pregiudizi positivi sulla bellezza del creato, quello di Milani in Un Mondo a Parte sta nel mostrarla anche troppo quella bellezza – ovviamente innegabile –, acquietandosi nell’estasi confortante ma traditrice di paesini belli come presepi arroccati sulle montagne e una natura squillante popolata di lupi, orsi e aquile maestose. Con il messaggio e il lieto fine netti e rassicuranti, mai agrodolci quanto dovrebbero essere.