“Muoiono tutti”, dice costernata Luciana Mazzalupi (Tiziana Cruciani), invecchiata e smemorata, appena sbarcata a Ventotene, in apertura di Un Altro Ferragosto, in cui quasi trent’anni dopo (il capostipite Ferie d’Agosto uscì nel 1996) si ritrovano nell’isoletta i “radical chic” Molino e i borgatari, stavolta pure piuttosto arricchiti grazie all’economia due o quattro punto zero, Mazzalupi.
Questa battuta è il punto di partenza di un film pieno di rintocchi di morte, esplicitamente funebre. E a dirla tutta, non è che mi aspettassi da Paolo Virzì, che firma la sceneggiatura insieme al fratello Carlo e al sodale di sempre Francesco Bruni, un film sorridente coi tempi belli di una volta e il come eravamo. I segnali di cupezza quasi misantropica, a leggere bene la filmografia recente del regista livornese, c’erano tutti: dalla follia de La Pazza Gioia al disilluso ritratto del Grande Cinema Italiano (così, con le maiuscole) di Notti Magiche, dalla malattia terminale in Ella & John alla distopia di Siccità.
Per cui in Un Altro Ferragosto, Virzi mette da parte la nostalgia e, in un aggiornamento sempre attento a costruire una cronaca dell’oggi (certo deformata, estremizzata, al modo della commedia all’italiana), cerca di dare un senso alla storia recente di un paese, ai suoi occhi, palesemente stremato. E pure quando utilizza le immagini della pellicola precedente non lo fa per ammiccare al passato, ma per misurare tragicamente la distanza e l’invecchiamento dei suoi personaggi, radiografando i volti e i corpi reali degli stessi attori di allora, giungendo a un giudizio costernato, inappellabile.
Sandro Molino (Silvio Orlando) è malato, prossimo alla fine. Allora la famiglia come estremo omaggio, in particolare l’arricchito figlio Altiero (Andrea Carpenzano), che vive negli Stati Uniti col suo marito americano e ha fatto i milioni con una app di messaggistica che protegge le conversazioni e quindi piace ai narcotrafficanti, pensa di regalare al patriarca con cui ha un rapporto difficile un’ultima vacanza estiva nell’isola che lui adora.
L’adora perché è il simbolo dei valori in cui l’ormai ex giornalista dell’Unità ha sempre creduto, l’antifascismo, la resistenza e, appunto, il Manifesto di Ventotene, simbolo profetico del federalismo europeo redatto lì dal confinato Altiero Spinelli, uno dei nomi di quel pantheon di virtuosi che Sandro recita al nipotino come un mantra. Dice Spinelli, Colorni, Pertini, Hirschmann (con “due enne”) come il galoppino Virgilio di Notti Magiche diceva “Ettore, Mario, Citto, la stupenda Lina, Marcello, la straordinaria Mariangela, Tullio, Ennio, Dino”, ripensando al Grande Cinema Italiano prima di ripiombare nella sua disperazione. E li recita, quei nomi, un po’ come le formazioni dei calciatori. E, ovviamente è colpa della malattia, ma quando fa il nome di Pertini, per un lapsus Sandro dice proprio che era stato calciatore, e quando lo sogna nelle sue forse visioni di premorte, gli ricorda non la lotta partigiana, ma il Santiago Bernabeu dei Mondiali dell’82.
Segno che l’immaginario italiano che ci accomuna tutti è quello lì, anche per l’intellettuale impegnato che s’è ridotto come un leone da tastiera qualunque a litigare con gli amici su facebook (“Adoro i tuoi post quotidiani contro quelli che stanno tutto il giorno sui social”, gli dice Betta [Raffaella Lebboroni]). Perché nel frattempo è morto pure Berlusconi, la cui presenza ritmava Ferie d’Agosto offrendo ancora illusoriamente un discrimine certo tra chi sta da un lato e chi da un altro. Scomparso lui, classificazioni rassicuranti non ce ne sono più, gli argini si sono rotti costringendoci, pur nelle differenze di tono stile cultura per carità, a riconoscere che i Molino e Mazzalupi s’assomigliano molto più di quanto vorremmo ammettere (come certifica un montaggio che non lascia un attimo di respiro, passando dagli uni agli altri senza soluzione di continuità, senza sbalzi di tono e ritmo).
Questo giudizio però, beninteso, non è il qualunquistico “noi italiani siamo fatti così, rossi e neri tutti uguali” contro cui sbotta il Nanni Moretti di Ecce Bombo (“te lo meriti Alberto Sordi!”). La conclusione di Virzì è fattuale – sì, con una punta di ambiziosa, sgomenta tentazione antropologica –, misurata dalla condivisione di una disperazione senza ritorno.
Per questa ragione nell’amplissimo cast corale di Un Altro Ferragosto, gestito con equilibrio mirabile, il regista introduce pure Christian De Sica. Non perché voglia sdoganare il cinepanettone – è stato ampiamente anticipato dagli studiosi che ne hanno descritto la fenomenologia, figuriamoci –, ma semplicemente perché, inutile trincerarsi dietro distinguo schizzinosi, pure lui è uno di noi, appartiene alla stessa storia d’Italia. E allora, genialmente, gli appioppa un nome da finto nobile, Pierluigi Nardi Masciulli, che ricorda il paterno conte Max Orsini Varaldo (così Virzì, in questa ricapitolazione anche della storia del cinema italiano torna indietro a Vittorio e ai telefoni bianchi del signor Max). E lo rimette, Christian, pure a fare coppia con una dolente Sabrina Ferilli come in un cinepanettone qualsiasi (era Christmas in Love).
Stavolta però da ridere c’è ben poco. E infatti nella scena più apertamente teorica di Un Altro Ferragosto, durante la “favolosa” cerimonia che celebra il matrimonio dell’influencer Sabrina Mazzalupi (Anna Ferraioli Ravel) con lo sgradevole Cesare (Vinicio Marchioni), Virzì fa ballare De Sica con Laura Morante. E invece di partire lo scontro di civilizzazione tra cinemaccio e cinema d’autore, i due si capiscono, condividendo la comune afflizione (e confusione). Afflizione che tocca l’apice della tetraggine apocalittica in un altro momento beffardamente teorico, quando Daniela (Emanuela Fanelli), ex moglie di Cesare, folgorata dal film impegnato del “maestro Bologna” proiettato al cineclub estivo rigorosamente in pellicola messo su dal, lui sì nostalgico, Mauro (Silvio Vannucci), realizza che quel film dice la verità, che “la vita fa schifo e che dovemo morì tutti”.
Però non c’è bisogno di affannarsi: come direbbe l’Enzo Jannacci di Mario, è sufficiente lasciare “fare alla vita la sua vecchia fatica, siamo feriti quanto basta”. Nella canzone lui diceva al suo protagonista che “non ti resta che ascoltare l’eco che hanno messo nel finale”. Virzì non ha messo nemmeno quello. Un Altro Ferragosto non ha bisogno di un finale vero, a un certo punto semplicemente si interrompe. Tanto la storia è sempre la stessa, e domani si ripeterà uguale, senza scampo.