Napoli Magica, il film che Marco D’Amore ha dedicato alla città, prodotto da Sky e da Mad Entertainment e distribuito come evento speciale in sala tra il 5 e il 7 dicembre, è costruito come un calderone in cui s’affastellano in modo volutamente anarchico appunti e suggestioni. È un Ibrido, che parte come un documentario e poco a poco accorpa altri codici, trasformandosi in un’opera di finzione simbolica e fantastica.
Che è anche apertamente narcisista, per come il regista diventa attore protagonista, esattamente nella qualità del famoso Marco D’Amore di Gomorra che si ferma per strada a chiacchierare e a fare selfie con la gente. Il dramma cupo e notturno delle maschere che riaffiorano dalla memoria sedimentata nelle viscere della città, da Pulcinella (Giovanni Ludeno) alla sirena Partenope (Marianna Fontana), si dà il cambio col tono da commedia della coppia di accademici da strapazzo, Totò e Peppino (Gigio Morra e Marcello Romolo), che s’accapigliano scherzosamente – ma fino a un certo punto – sulla storia millenaria e l’identità di un luogo sospeso tra magia e scienza.
C’è in Napoli Magica la città folcloristica del popolo estroverso e accattivante, eternamente cullata (addormentata?) dal suono delle sue canzoni – con un momento alla Passione, in cui una cameriera (in realtà l’ottima cantante Irene Scarpato) intona ’A Vucchella, che Gabriele D’Annunzio scrisse per scommessa nel dialetto non suo, e intanto in sottofondo i napoletani, popolo d’amore come diceva De Crescenzo-Bellavista, non possono fare a meno di baciarsi sullo sfondo dei vicoli e del golfo assolato. Non manca il baedeker turistico, col Cimitero delle Fontanelle, le Catacombe di San Gaudioso, Forcella e la Sanità, il lungomare, la Cappella Sansevero in cui il principe Raimondo Di Sangro (Andrea Renzi) tuona “Non ci avrete mai!”, la pizza e il caffè al Gambrinus.
Nel frattempo Marco D’Amore muore (letteralmente) e rinasce, inseguendo il mistero e il significato di una città tautologica, che tutti sì, assicurano essere magica, sebbene nessuno sia in grado di spiegare davvero perché. È così è basta, tanto vale accettarlo.
Alla fine perciò Napoli Magica più che cercare risposte decide giustamente di aderire attraverso la sua forma a quella della città, rinunciando alla lucidità e alla coerenza di una narrazione equilibrata, accettando l’idea che nessuna sintesi tra i contrari sia possibile. Il film, magmatico e sopra le righe come il tema che si è scelto, replica nella sua struttura periclitante la natura ibrida di una città incomprensibile, duplice sin dalle sue origini (prima Partenope, dalla leggenda della sirena che si lasciò morire non riuscendo a sedurre Ulisse; poi Nea-polis, città nuova), insieme viva e morta, che s’innalza (le classiche riprese col drone) e s’inabissa (gli spiriti, i fantasmi, i defunti che sarebbero addirittura a milioni sepolti, anonimi, nella città sotterranea).
Città persino teriomorfa (come nelle origini della maschera di Pulcinella) che all’improvviso – esattamente nel punto in cui nacque il primo insediamento, davanti al Borgo Marinari di Castel dell’Ovo (altra leggenda, quella dell’uovo prodigioso nascosto dal poeta-mago Virgilio nelle segrete della fortezza, la cui rottura condurrebbe la città all’apocalisse) – si popola di una mandria di asinelli – altro simbolo del luogo. E proprio il loro mansueto, malinconico, buffo e disperato ragliare, chissà, potrebbe spiegarci, se solo sapessimo interpretarlo, il significato segreto della Napoli Magica, che gli strumenti della ragione e della scienza faticano a misurare.
Marco D’Amore aveva già mostrato una vocazione registica autentica con L’Immortale, capace di farsi spazio dentro la gabbia del macrotesto di Gomorra trovando un suo modo di abitarlo. E si conferma con questo impudente Napoli Magica, che si sceglie sconsideratamente un argomento per definizione impossibile da raccontare – e per questo oggetto di infiniti racconti -, che lui affronta mettendo a disposizione generosamente (e sì, appunto, narcisisticamente) il suo corpo d’attore a una storia bizzarra e fantastica, che preferisce aderire simbioticamente alla pelle della città, ben sapendo che, in assenza di spiegazioni coerenti, tutto quel che si può fare è darle voce.