Sempre più il Mario Martone dell’ultimo decennio si è concentrato su Napoli, in una riflessione che ha analizzato la città attraverso la lente della storia con la esse maiuscola e in un continuo intersecarsi tra cinema e il teatro, i grandi amori del regista. Persino l’ultimo e apparentemente eterodosso frutto della sua produzione, il documentario su Massimo Troisi Laggiù Qualcuno Mi Ama, ha le cadenze di una meditazione in cui la città, la sua cultura, persino la sua geografia, sbucano fuori da ogni dove, innestando la vis comica di Troisi sul fervido contesto da cui è gemmata.
È almeno dai tempi de Il Giovane Favoloso (2014), biografia dedicata al conclusivo capitolo partenopeo di Leopardi – cui andrebbe idealmente collegata la sapiente riduzione teatrale che Martone ha fatto de Le Operette Morali – che la cinematografia della seconda stagione del regista è intrisa di napoletanità. Il seguito è stato Capri-Revolution (2018), in cui il ritratto di primo Novecento della vocazione cosmopolita a Mezzogiorno descrive la peculiare capacità di assorbimento e irradiazione di cultura e culture propria di Napoli, un tratto operante sino a oggi.
A queste si sono aggiunte le rivisitazioni addossate sulla contemporaneità de Il Sindaco del Rione Sanità (2019) e di Nostalgia (2022), più attente al racconto del versante soprattutto criminogeno della città, in un intelligente corpo a corpo critico col monolito gomorresco, su cui è stato schiacciato (punitivamente direi) quasi integralmente l’immaginario napoletano degli ultimi quindici anni (fatto salvo, su di un altro versante, solo l’eterno ritratto folkloristico-sentimentale della città, lontanissimo però dagli interessi martoniani).
In questo complesso tessuto s’inscrive un’altra riflessione densa e stratificata, ossia Qui Rido Io (2021), che racconta il grande drammaturgo partenopeo Eduardo Scarpetta, interpretato da un generoso Toni Servillo, che nelle messinscene del teatro nel film delle farse scarpettiane sonda anche i registri comici del suo bagaglio d’attore.
Scarpetta è l’autore teatrale per eccellenza a Napoli nel passaggio tra Otto e Novecento, protagonista della rivoluzione, o più moderatamente della riforma della scena, attraverso il parricidio di Pulcinella, la maschera popolare quintessenza di una eterna napoletanità incardinata su fame e penuria, sostituita da quella che Salvatore Di Giacomo definì una “semi-maschera”, cioè Felice Sciosciammocca, frutto di una “napoletanizzazione” del repertorio francese di pochade e vaudeville, che rispecchiava chirurgicamente i gusti del pubblico borghese dei vivaci anni della Belle Époque (ricostruita molto bene da un libro di Francesco Barbagallo).
Scarpetta in Qui Rido Io – il titolo è ricavato dalla frase che fece apporre sulle mura della sua bella villa signorile sulla collina del Vomero – afferma che “la mia forza è il pubblico”. E ha ragione: perché quegli spettatori che affollano i teatri per vedere le sue commedie non si divertono soltanto, ma vedono esattamente riconosciuti i propri gusti, che il drammaturgo sa persino anticipare e indirizzare, dando forma alle predilezioni e aspirazioni delle nuove classi.
Martone però ritraendo quella stagione compie anche un’operazione di spiazzamento, scegliendo di raccontare non gli anni travolgenti dell’affermazione tardo-ottocentesca di Scarpetta, ma la sua crisi incipiente all’inizio del nuovo secolo, quando ulteriori cambiamenti che interessano la società tutta scandiscono l’ampliarsi della distanza tra un uomo e il suo tempo.
Forse anche per questo il “viaggio sentimentale”, cosi lo chiama Martone nei titoli di coda, tra le canzoni napoletane da lui selezionate per la colonna sonora, è singolarmente fuori sincrono con l’epoca narrata, pieno di brani cronologicamente successivi (Dduie Paravise è del 1928, Indifferentemente del 1963, Carmela addirittura del 1976) e comunque scegliendo sempre versioni posteriori anche dei classici dell’epoca d’oro, interpretate dai maggiori artisti del secondo Novecento, Sergio Bruni e Roberto Murolo.
E non solo i suoni, ma anche le immagini denunciano questa discontinuità con gli eventi narrati. Se sul piano di scenografie e costumi la filologia è rispettata, fuori sincrono sono i filmati dei fratelli Lumière con cui si apre Qui Rido Io, ancora ottocenteschi, oppure le fotografie che ritraggono in età matura il figlio naturale di Scarpetta, Eduardo De Filippo.
Il riferimento a Eduardo squaderna un tema centrale del film, la paternità, in cui si manifesta quel miscuglio di modernità e arcaismo che Scarpetta rappresentò. Moderno nei consumi – l’acquisto del primo frigorifero, status symbol di cui va vezzosamente orgoglioso – e arcaico, ancestrale nella gestione d’una famiglia di cui è dominus geloso e dittatoriale, incapace di riconoscere l’autonomia delle donne e dei figli della sua intricata vita sentimentale.
Scarpetta, come rammenta Qui Rido Io, ebbe figli dalla moglie Rosa (Maria Nazionale), tra cui il ribelle Vincenzo (interpretato simbolicamente da Eduardo Scarpetta, stesso nome del trisavolo di questa interminabile dinastia); poi dalla di lei nipote Luisa (Cristiana Dell’Anna), madre dei tre De Filippo, Titina, Eduardo e Peppino; e infine dalla sorellastra di Rosa, Anna (Chiara Baffi), madre pure del poeta Ernesto Murolo.
Se si considera il fatto che diversi tra questi figli non vennero legalmente riconosciuti, assume tutto un altro, più oscuro e amaro significato il testo considerato il vertice dell’arte comica di Scarpetta, Miseria e Nobiltà, che Martone in Qui Rido Io usa come un reagente che fa deflagrare il tema della paternità negata. La pièce ha riflessi comici per il suo autore, e però tragici per familiari e figli, obbligati pure a recitare la loro parte in commedia, tanto sulle tavole del palcoscenico che nella vita reale, sottostando alla legge dispotica del padre.
Scarpetta non vuole consegnare l’eredità del proprio nome ai figli. E riesce a trasmettere loro solo l’eredità del teatro – nel quale debuttano giovanissimi sempre nel ruolo del piccolo Peppeniello di Miseria e Nobiltà, persino Titina –, sebbene pure lì irreggimentati dentro binari predefiniti, che sono quelli della maschera Sciosciammocca, cui i discendenti devono religiosamente attenersi. Almeno fino alla spallata del teatro di Eduardo De Filippo, che costituirà un’ulteriore rivoluzione della scena partenopea, con accenti, soprattutto nei giorni dispari del dopoguerra, sempre più cupi e meditabondi, rispondendo a sollecitazioni sociali e culturali dettate dai tempi del secondo Novecento – ma anche segretamente corrispondendo a un’esigenza di autonomia dal modello teatrale e umano del padre, con cui De Filippo fa i conti a modo suo, tramite i mezzi espressivi della scrittura scenica.
La Storia quindi si muove, e mette da parte anche Scarpetta, che seppe farsi motore di cambiamento, restando però a un certo punto spiazzato dai mutamenti, fossilizzato su di un passato che ineluttabilmente sarà costretto a incarnare. Perciò, in una sequenza che suona come incubo e presagio, Scarpetta ritrova sul palcoscenico la maschera irrigidita del defunto Pulcinella che lui aveva mandato in soffitta. Solo che questo Pulcinella ha il suo volto.
L’unica forma di resistenza al tramonto di Qui Rido Io è demandata alla tellurica energia creativa dell’artista, che fa scempio della Figlia di Iorio di Gabriele D’Annunzio mettendola in parodia. È un altro omicidio simbolico, contro il quale insorge la buona società delle lettere, Di Giacomo, Ferdinando Russo, Roberto Bracco, Libero Bovio, difensori di un’idea di letteratura e ancor più del valore intoccabile dei padri. Padri contro cui Eduardo Scarpetta è sempre insorto. Destinato però, come loro, a impersonare il medesimo ruolo e, come tutti, soccombere. Per questo l’ultima immagine del film ritrae l’altro Eduardo.