Dopo aver diretto un paio di episodi della serie, Marco D’Amore per l’esordio alla regia nel lungometraggio, L’Immortale, targato Cattleya e Vision Distribution, resta ancora nei confini di Gomorra e del personaggio che gli ha dato la notorietà. Avevamo lasciato Ciro Di Marzio, il boss detto appunto l’Immortale, trafitto a morte alla fine della terza stagione da una pallottola sparatagli dall’ex “fratello” Genny Savastano. La pallottola però, come si scopre nelle prime battute del film, e come si era già capito dal finale di Gomorra 4, non l’ha ucciso. E Ciro riemerge dalle acque a nuova vita.
Rimessosi in piedi, ritroviamo Ciro nella capitale della Lettonia, Riga, a occuparsi del traffico di cocaina per conto del boss napoletano Don Aniello (Nello Mascia). Una situazione non esattamente di tutto riposo, dato che mafia russa e lettone si contendono il mercato e lui finisce inevitabilmente per trovarsi nel mezzo.
A Riga, Ciro trova una piccola comunità napoletana che lo assiste nel suo lavoro. Soprattutto una figura che incrina la sua imperturbabilità, Bruno (Salvatore D’Onofrio), un uomo ormai maturo, che da giovane (interpretato da Giovanni Vastarella) fu per Ciro (da bambino la faccia da scugnizzo di Giuseppe Aiello) come un padre putativo, iniziandolo alla vita criminale e dandogli, nel bene e soprattutto nel male, un’opportunità di sopravvivenza.
Su questo versante L’Immortale dispiega il massimo sforzo narrativo, sceneggiato da Leonardo Fasoli, Maddalena Ravagli, Francesco Ghiaccio, Giulia Forgione e lo stesso D’Amore, per scavare nel passato del personaggio e dare al film una sua fisionomia, autonoma dalla serie.
Il film però resta derivativo. Lo è in senso narrativo, sia a monte che a valle, perché comincia esattamente dal drammatico finale della terza stagione e termina in funzione di apripista della quinta. Ma lo è anche stilisticamente, ripetendo la lentezza seriosa, la sentenziosità dei personaggi, la cupezza cromatica tipiche della serie. L’Immortale ruota anche intorno a temi già visti, il tradimento, l’essere orfani, il bisogno di figure paterne.
Anche il passato, ricostruito indubbiamente con cura, finisce per riannodarsi al presente nel segno della continuità e dell’ineluttabilità. Gli anni Ottanta sono quelli in cui, a partire dal 1980 della ricostruzione post-terremoto, la camorra fece un importante salto di qualità. Ma L’Immortale non analizza il contesto storico, semmai ne riproduce i dettagli d’epoca più vistosi – dai motoscafi dei contrabbandieri di sigarette alle canzoni di Nino D’Angelo –, restando soprattutto concentrato sulle figure in primo piano e sull’apprendistato al male del piccolo Ciro. La cui storia, sin dalle origini, sembra già integralmente scritta, nel segno di un destino maligno che non cambia mai.
Infatti, anche sul piano formale il passaggio dal presente al passato avviene in maniera meccanica. Il corpo di Ciro scende lentamente verso il fondo del mare e in parallelo un pavimento crolla per la scossa sismica risucchiando la madre col piccolo Ciro. Una luce al neon intermittente nello squallido appartamento lettone in cui vive si trasforma nello scintillio di una fiamma ossidrica di un meccanico nella Napoli degli anni Ottanta. Una battuta detta da un personaggio al presente viene conclusa da un altro nel passato, in due situazioni letteralmente identiche.
È questo il senso dell’ineluttabilità di Gomorra, e quindi de L’Immortale, di questa storia che ruota sempre ossessivamente intorno a sé stessa, che parla dell’irredimibilità di un mondo a un solo colore, senza sfumature e speranza. In questa spirale asfissiante a emergere sono solo i personaggi principali, in un racconto che tende sempre alla dizione altisonante, che mette in scena volente o nolente un’epica del male che suona ambigua e spettacolarizzante – si pensi all’uso delle musiche, che sempre sottolineano ed enfatizzano ogni situazione.
Pur aspirando a una voce autonoma, L’Immortale finisce per essere una lunga puntata di raccordo tra vecchia e nuova stagione di Gomorra. La cosa non deve destare sorpresa, nell’attuale regime di transmedialità gli oggetti narrativi si smaterializzano e attraversano contenitori e formati diversi, e sono quindi i contenitori, non i contenuti, a doversi adattare alle necessità del racconto.
Non c’è nulla di male, secondo molti questa è la caratteristica fondante dell’attuale cultura convergente, che arricchisce lo storytelling di tante opportunità specifiche, precluse a racconti che restano chiusi nei confini di un solo contenitore, sia esso il cinema o la serie. Resta però l’impressione, a uno spettatore probabilmente “novecentesco” come il sottoscritto, che la scelta del formato lungo per L’Immortale più che da un’autentica urgenza narrativa dipenda dal desiderio di assorbire la residua aura di prestigio connessa storicamente al cinema per dare maggiore autorevolezza alla serie tv. Quale vantaggio ne ricavi il cinema, è meno chiaro.