Per La Stranezza, il suo nuovo film passato in anteprima alla festa del Cinema di Roma e dal 27 ottobre nelle sale, Roberto Andò mette da parte le sue ambizioni da pensoso quadro allegorico sulla contemporaneità che caratterizzavano, appesantendoli, film come Viva la Libertà e Le Confessioni, scegliendo invece, più felicemente, di muoversi luogo il crocevia in cui s’intersecano cinema e teatro, il suo vero primo amore.
La Stranezza infatti immagina che Luigi Pirandello (Toni Servillo) si rechi nel 1920 nella natia Sicilia per omaggiare il grande romanziere Giovanni Verga (Renato Carpentieri) in occasione dei suoi ottant’anni. Il ritorno a casa si trasforma in qualcosa di assai più personale. In primo luogo perché, all’arrivo, viene informato della morte improvvisa della sua vecchia balia (Aurora Quattrocchi), cui era legatissimo, al punto da occuparsi in prima persona dello svolgimento delle esequie. Il che, ed è il secondo aspetto fondamentale, lo porta a conoscere i due becchini, Sebastiano e Nofrio (Ficarra e Picone): i quali sono anche attori teatrali amatoriali, sul punto di mettere in scena un nuovo testo, scritto dallo stesso Nofrio, dall’ampolloso titolo La trincea del rimorso, ovvero Cicciareddu e Pietruzzu.
Pirandello comincia a incuriosirsi al lavoro del duo, addirittura presenziando alla prima nel teatrino locale. Questo anche perché il grande drammaturgo è in preda all’impasse di fronte all’opera cui sta lavorando da tempo, che diventerà I Sei Personaggi in Cerca d’Autore. E sarà proprio La Trincea del Rimorso, e più del testo tutto ciò che ruota e accade intorno al testo la sera della prima, a ispirare Pirandello e indicargli una via possibile per il suo dramma in bilico tra finzione e realtà, teatro e vita.
Roberto Andò, insieme ai cosceneggiatori Massimo Gaudioso e Ugo Chiti delinea ne La Stranezza una vicenda in cui s’impastano autentici fatti biografici della vita dell’autore agrigentino e invenzioni narrative. La linea interpretativa l’individua lo stesso Andò quando, nelle sue note di presentazione del film, ricorda un’intuizione di Leonardo Sciascia, cui il film è dedicato, che scriveva: “In Pirandello c’è una specie di invenzione del teatro, egli inventa, cioè nel senso più proprio trova, il teatro nella vita, nell’istintivo impetuoso scorrere di tragedia e commedia”.
La Stranezza si muove lungo questo crinale tra commedia e tragedia: palese nella scelta di cast, accostando a un attore dall’etichetta d’autore come Toni Servillo, compunto Pirandello ombroso e malinconico, i due comici Ficarra e Picone (la cui scelta rimanda con tutta evidenza ai Franco e Ciccio del pirandelliano Kaos dei Taviani). I quali però il teatro l’avevano già sperimentato con una versione delle Rane di Aristofane diretta da Barberio Corsetti e che, in particolare in un film come L’Ora Legale, avevano saputo mostrare anche un’apprezzabile corda civile. Tragicomico è il titolo del testo di Nofrio, che accosta alle ambizioni de “La trincea del rimorso”, la vena inevitabilmente popolaresca del sottotitolo dal sapore di farsa coi nomi dialettali Cicciareddu e Pietruzzu.
E finisce nella farsa la prima dello spettacolo, in cui, contrariamente alle speranze autoriali di Nofrio, le improvvisazioni comiche dell’incontenibile Sebastiano a caccia di facili applausi conducono il testo su tutt’altre sponde, prima che poi anche la vita, le gelosie, le ripicche irrompano sulla scena, facendo franare la serata in una battaglia tra palcoscenico e platea, e tra attori che tornano ai personaggi che interpretano nella vita di ogni giorno.
Di qui l’idea ironica e a suo modo antiretorica su cui si fonda La Stranezza: cioè che Pirandello possa aver trovato ispirazione per il suo cerebrale Sei Personaggi in Cerca d’Autore, che ha rivoluzionato il teatro del Novecento, dalla scalcagnata messinscena d’un gruppo di guitti di provincia. Il che, naturalmente, da un punto di vista storico e di filologia pirandelliana semplifica non poco l’origine di un testo intorno a cui il suo autore aveva ingaggiato una battaglia interminabile, prima immaginandolo come romanzo e poi scegliendo la forma drammaturgica, innestandovi intuizioni – i personaggi di finzione che vivono di vita autonoma – che lo ossessionavano dai tempi delle novelle La Tragedia di un Personaggio e Colloqui coi Personaggi. E nel dramma finirono altri fantasmi molto intimi, legati alla pazzia della moglie Antonietta e alle sue gelosie paranoiche indirizzate al legame tra Pirandello e la figlia Lietta – che tornano nel dramma nella forma dell’immagine scabrosa dell’incesto.
La genesi del capolavoro è più articolata e tortuosa dell’intuizione estemporanea ricavata dallo spettacolo di Nofrio e Sebastiano. Ma è intrigante l’idea che l’arte seria sgorghi e si nutra di accenti terragni. Anche perché ne La Stranezza rintocchi severi e lugubri risuonano continuamente pur nella partitura volutamente leggera. La vicenda inizia da una morte, quella della balia – che torna come fantasma e personaggio a visitare Pirandello –, e continua risucchiando drammaturgo e becchini nel girone infernale dell’eterna inerzia burocratica, con le immagini di uffici pubblici stipati di fascicoli polverosi immoti come sculture e l’angoscioso scenario di bare accatastate e di morti che attendono da tempo immemorabile sepoltura. Defunti sospesi tra qui e l’altrove, come i personaggi pirandelliani sospesi tra la forma letteraria e la vita cui aspirano.
Essenziale in questo senso è il lavoro sulla messinscena, di certosina attenzione teatrale, nelle scenografie esatte di Giada Calabria, nei costumi di Maria Rita Barbera, nella fotografia croccante di Maurizio Calvesi. Funziona poi l’interazione nella diversità tra Servillo e Ficarra e Picone, a servizio del film. Nell’epilogo Nofrio e Sebastiano sono invitati dal maestro alla celebre prima dei Sei Personaggi del 1921 al Teatro Valle a Roma – in cui, terminato lo spettacolo, qualche spettatore indignato urlò “Manicomio! Manicomio!”. Restano affascinati dal gioco tra finzione e realtà e dal teatro che si fa palcoscenico, anche se In verità a un certo punto Sebastiano s’addormenta, dicendo alla fine: “Non ci ho capito niente, però mi è piaciuto”. Che è l’ultima nota ironica e verosimile de La Stranezza: perché è vero che alto e basso, arte seria e popolare, non necessariamente riescono a intendersi reciprocamente. Ma è altrettanto vero che l’una non può fare a meno dell’altra. E che i capolavori d’autore, senza il nutrimento di umori concreti, rischiano d’insterilirsi e d’impantanarsi nell’indeterminatezza presuntuosa e nella noia.