C’è un momento rivelatore di Finalmente l’Alba di Saverio Costanzo, in questi giorni nei cinema dopo il passaggio in concorso all’ultimo festival di Venezia, dove venne maltrattato al punto da convincere il regista ad alleggerirlo d’una ventina di minuti per l’uscita in sala. Si tratta della scena in cui, a Cinecittà, un paio di ragazzini abbarbicati su di un ponteggio guardano avidamente attraverso uno spioncino la vista del set di qualche favoloso kolossal. Anche la protagonista Mimosa (Rebecca Antonaci), incuriosita, sale sull’impalcatura per godersi lo spettacolo. Ma niente, un guardiano dice che non si può: e come loro, anche noi spettatori restiamo lì, a fissare il vuoto di Finalmente l’Alba, che non riesce a dirci e mostrarci nulla degli anni Cinquanta e del cinema anni Cinquanta, di cui ci limitiamo a osservare una superficie ingannevole, imprecisa, anacronistica.
Ci si potrebbe obiettare che non è vero, e che invece il film di Costanzo accetta fino in fondo la sfida di rappresentare sia il mondo reale e che l’immaginario del tempo. Non comincia forse Finalmente l’Alba con un teorico film nel film, con Mimosa, mamma e sorella al cinema spettatrici di un severo film bellico neorealista in bianco e nero? Peccato che di neorealista quelle sequenze non abbiano nulla, con – al di là ovviamente della grana delle immagini – un taglio delle inquadrature che rimanda come minimo agli anni Novanta di Schindler’s List e battute – il soldato americano che dice al ragazzino cui hanno appena ammazzato la mamma, “andrà tutto bene”, con contorno di sfavillante ripresa monumentale dello scalone di Trinità dei Monti – che suonerebbero bene in un film hollywoodiano o ne La Vita è Bella, non di certo nelle opere degli anni Quaranta di Rossellini o De Sica.
Non va meglio con la scena d’un peplum che indulge in dettagli, spadoni che infilzano gole di mezzo metro, rapaci che sfigurano orribilmente dei prigionieri, di un esplicito gusto horror che stona coi sandaloni della Hollywood sul Tevere. E queste considerazioni, beninteso, non sono fatte per un gusto noiosamente e puntigliosamente filologico, ma perché riteniamo che quando si fa un film storico bisognerebbe essere mossi da un’idea, una visione del periodo ritratto che ne conosca e restituisca le mentalità, la cultura, le forme di comportamento, senza limitarsi allo stantio defilé di abitucci lisi e pettinature che di quell’epoca costituiscono la superficie più facilmente riproducibile e non la sostanza.
Il problema di Finalmente l’Alba perciò non è il palese onirismo fantastico del finale che rompe la verosimiglianza – che poi cosa dovrebbe indicare? che per la piccola Mimosa Alice nel paese degli orrori alla fine del suo doloroso coming of age è “andato tutto bene”, come predetto dal soldatino? – ma è appunto, nonostante le apparenze, l’assenza della verosimiglianza e un’autentica resa realistica del contesto.
Finalmente l’Alba è la storia della classica brava ragazza ingenua imbottita di sogni di celluloide che, nell’Italia del 1953 un giorno accompagna la più avvenente sorella a Cinecittà per un provino da figurante. Ovviamente viene scelta lei, perché la favolosa e capricciosa diva Josephine Esperanto (Lily James) s’incapriccia e la sceglie come portafortuna personale sul set. Di qui Mimosa viene trascinata in un viaggio notturno dall’altro lato dello specchio, fatto di esseri misteriosi e fatati, dal divo Sean Lockwood (Joe Keery) al più gentile mercante d’arte Rufo Priori (Willem Dafoe), americano a Roma che fa da mediatore culturale e linguistico, fino a un sottobosco sospetto di aristocratici corrotti e perversi.
Guarda caso nel bailamme di volti e corpi appare pure l’allora fidanzato di Alida Valli, Piero Piccioni, sospetto principale nel tragico caso di Wilma Montesi, la ventunenne che nel 1953 fu trovata morta sulla spiaggia di Torvaianica, delitto rimasto irrisolto che deflagrò a lungo nelle pagine di cronaca di quegli anni, incidendo a carne viva sul corpo della nazione cui tolse la patina di conformismo perbenista, rivelando intrecci poco giudiziosi di ambienti bene tra cinema e politica (il musicista Piccioni era figlio del vicepresidente del Consiglio, il democristiano Attilio).
Fu un evento spartiacque, rivelatorio di un cambio di passo e di mentalità, sul quale si può leggere il libro di Stephen Gundle, Dolce Vita. Sesso, potere e politica nell’Italia del caso Montesi, il quale sin dal titolo ci ricorda come per lo stesso Federico Fellini – che la Dolce Vita la terminava volutamente su di una spiaggia con due mostri (uno era il Marcello ormai perduto) e una ragazzina virginale – quell’evento costituì una suggestione essenziale a partire dalla quale dare forma alla Babilonia eccitante ed eccitata, estenuata ed estenuante di un’opera che, dopo anni di marescialli Carotenuto e bersagliere, Don Camillo e Peppone, poveri ma belli e due soldi di speranza, prese l’Italia e la portò a forza nella modernità, costringendola a guardarsi con franchezza un passo oltre lo strapaese con quale la società andava ancora ipocritamente baloccandosi.
Di questa tellurica, ribollente materia, nel molle ritratto di Finalmente l’Alba non c’è traccia. Il caso Montesi non si fa mai metafora, convitato di pietra, né dà sostanza alle immagini del film, viene anzi immediatamente spiattellato, nella forma di una specie di cinegiornale proiettato in una saletta in cui Mimosa capita. E per far capire subito tutto allo spettatore prima ancora che accada, si fa vedere la ragazzetta davanti allo schermo gigantesco su cui è proiettata l’immagine del cadavere sulla spiaggia della Montesi, che fa il paio con quell’altra didascalica dissolvenza incrociata che passa dal manifesto della diva al primo piano di un’onesta donna del popolo, a ricordarci – ma no! – quanta distanza c’è tra immaginario e realtà, e quanti fasullissimi inganni reca con sé la fabbrica dei sogni.
Che poi però un po’ dà anche forma alla realtà visto che, come dice Mimosa a Lockwood, “l’attore tedesco faceva paura come nel tuo film” (in cui ovviamente faceva il sadico nazista) e lo scalone di Trinità dei Monti, apparso nell’improbabile film neorealista, poi ritorna nella conclusione di Finalmente l’Alba. Ma non si pensi a chissà quale pensosa riflessione sullo statuto delle immagini. Tanto alla fine, appunto, giunge il messaggio, magari un po’ confuso, ma tonificante: è andato tutto bene, non è successo niente.