“Caro Evan Hansen”: cominciano così le lettere che Evan (Ben Platt, già protagonista del musical da cui è tratto il film) scrive a sé stesso, un esercizio che al liceale affetto da ansia e depressione ha consigliato il suo terapeuta, per guardare onestamente in faccia le proprie paure e dar loro una forma per superarle. Il caso vuole che un giorno una delle sue lettere finisca nelle mani di un compagno di scuola, Connor Murphy (Colton Ryan), un ragazzo altrettanto problematico che però, al contrario di Evan, esprime il suo disagio attraverso un’aggressività sfiancante. Non è l’inizio di una grande amicizia, tutt’altro. Connor subito dopo torna a casa e si toglie la vita.
I suoi genitori (Amy Adams e Danny Pino) gli trovano indosso quella lettera, scambiandola per un ultimo messaggio d’addio destinato all’unico amico che abbia mai avuto. Perciò decidono di conoscere Evan, che di fronte al loro bisogno di una parola di conforto, non ha il coraggio di dire la verità e s’inventa la storia dello straordinario rapporto con Connor. La bugia pietosa, a poco a poco, assume contorni sempre più vasti: Evan diventa quasi una sorta di figlio vicario dei Murphy, avvicinandosi sempre più alla loro figlia, Zoe (Kaitlyn Dever) di cui è segretamente innamorato. E viene anche coinvolto in un progetto dedicato alla memoria di Connor, per salvare dall’incuria un frutteto che era caro al ragazzo.
Tutto ciò fa sentire finalmente amato Evan, che non ha padre e ha una madre indaffaratissima (Julianne Moore) E lo trasforma, lui terrorizzato dalle situazioni sociali, in un personaggio inaspettatamente popolare a scuola. Un’esperienza da cui viene travolto e sedotto. Fino a quando il cumulo di falsità non supera il livello di guardia, con ripercussioni dolorose per tutte le persone coinvolte.
Non è difficile capire perché il regista Steven Chobsky abbia deciso di trasporre al cinema il musical omonimo di grande successo, vincitrice di sei Tony Award, Caro Evan Hansen, con libretto di Steven Levenson (autore anche della sceneggiatura) e musiche e parole di Benj Pasek e Justin Paul (che hanno firmato anche le canzoni di La La Land). Infatti la struttura della storia è abbastanza simile a quella del precedente film di Chobsky, il delicato Wonder, con al centro un ragazzino undicenne affetto da una grave malformazione che, costretto per la prima volta a confrontarsi a scuola coi suoi coetanei “normali”, deve affrontare una prova emotiva terrorizzante per lui e per i suoi familiari.
Alla base di Caro Evan Hansen ci sono le medesime forme di ansia paralizzante legate alla percezione adolescenziale di un’inadeguatezza cronica. La morte di Connor dilata quel senso patologico di fragilità, che a ben guardare non riguarda il solo Evan, e si riverbera su tutti i personaggi: la madre che ha cresciuto come poteva il figlio tutta da sola con grandi sensi di colpa; la madre di Connor benestante e irrisolta, il patrigno apparentemente tutto d’un pezzo e invece roso dalla frustrazione di non essere mai stato accettato come un vero padre; la sorella convinta di non essere mai stata voluta bene dal fratello; alcuni compagni di scuola, come la reginetta dall’aria perfettina e interiormente non meno tormentata di Evan, a testimoniare una sensazione d’impotenza terribilmente comune e vergognosamente nascosta. Paradossalmente, proprio le menzogne reiterate di Evan che s’inventano un’amicizia unica e preziosa toccano delle corde veritiere che sono d’aiuto per gli altri.
Caro Evan Hansen mantiene l’impostazione da musical – che fa un po’ pensare a Glee – con le canzoni che intervengono come universo ideale parallelo attraverso cui l’impacciato Evan trova la forza per dare voce alle proprie inquietudini e aspirazioni. Va detto che a Chobsky non riesce lo stesso gioco di prestigio di Wonder, che riusciva a mantenersi miracolosamente in equilibrio tra l’onestà accorata del melodramma e i rischi del patetismo ricattatorio, anche grazie a una sottile autoironia di fondo e una consapevolezza cinefila che regalavano al film un’esemplarità e una leggerezza fiabesca.
In ogni caso, come il suo predecessore, Caro Evan Hansen, che mantiene un tono più monotono, serio e cupo, ha il coraggio della piena adesione al genere del film strappalcrime, categoria problematica cui i critici guardano solitamente con orrore e il pubblico ama quasi vergognandosene. E persino nella durata, che supera abbondantemente le due ore, invece di cercare una qualche forma di asciuttezza e laconicità, prende di petto e sviscera tutti i possibili risvolti della vicenda, puntando spudoratamente su di una commozione a volte forzatamente ricercata, a volte liberatoria.
Caro Evan Hansen funziona come un catalogo delle ansie dell’adolescenza – non solo di quell’età, evidentemente – che aspira a essere il ritratto di un mondo e non semplicemente di un personaggio borderline. Ma nel passaggio dal musical al cinema non tutto funziona e suonano didascalici alcuni aspetti, come tutta la parte riguardante il riverbero che le storie private hanno sui social network – topos inevitabile e scorciatoia di sceneggiatura di troppe narrazioni contemporanee. Cosi il film a tratti resta chiuso nella semplificazione da teen movie, con il suo tonificante messaggio che assomiglia molto alle lettere che Evan indirizza a sé stesso raccontandosi che oggi, finalmente, andrà tutto bene.