Solo pochissimi giorni fa è stata pubblicata l’edizione 2022 della classifica della rivista “Sight & Sound”, aggiornata ogni dieci anni dal 1952 con la lista dei cento migliori film della storia del cinema. Da cui non manca mai tra le primissime posizioni, questa volta è decimo, Cantando Sotto la Pioggia (Singin’ In The Rain), il più celebre musical della storia del cinema, uscito esattamente settant’anni fa, nel 1952.
Per celebrare degnamente l’anniversario, la Cineteca di Bologna ha deciso, nel suo ampio carnet di titoli del “Cinema Ritrovato”, di riportare in sala in una magnifica versione restaurata in 4k dalla Warner Bros., il capolavoro diretto (e coreografato) a quattro mani da Stanley Donen e Gene Kelly – quest’ultimo ovviamente anche indiscusso protagonista del film –, cui vanno aggiunte le quattro mani della coppia di sceneggiatori Betty Comden e Adolph Green, provenienti da Broadway, e la fondamentale supervisione del produttore, per conto della MGM, Arthur Freed.
Il quale non fu solo l’ispiratore del progetto – fu sua la prima idea di fare un film utilizzando le canzoni da lui composte in collaborazione con Nacio Herb Brown per i musical MGM degli anni Venti e Trenta –, ma, assai più rilevante, era il responsabile, nell’epoca d’oro dello studio system, di una delle tre unità della casa di produzione demandate alla realizzazione di musical. E la squadra di Arthur Freed, che s’era fatto notare come produttore associato de Il Mago di Oz (1939) – era quella che si occupava dei progetti di serie A, i più lussuosi innovativi e sperimentali, che coagularono attorno a un gruppo di eccellenti artigiani e professionisti le firme di un quartetto di autentici artisti come Gene Kelly, Fred Astaire, Vincente Minnelli e Stanley Donen.
La sezione produttiva agli ordini di Freed nel giro di pochi anni, tra la metà dei Quaranta (a partire da Incontriamoci a Saint Louis, 1944 di Minnelli, con Judy Garland e Kelly) e il 1958, l’anno di Gigi (sempre Minnelli), sfornò una serie di titoli che rinnovarono e condussero alla piena maturità il genere, caratterizzati da una cifra immediatamente riconoscibile, colorata e lucente, ambiziosa nel décor e nell’idea di cinema, con una inedita capacità di integrazione tra racconto e numeri di danza i quali, invece di costituire dei momenti di interruzione della narrazione, riuscivano invece a spingerla oltre con grande naturalezza.
Se le lambiccate coreografie dei musical degli anni Trenta di Busby Berkeley o della coppia Fred Astaire e Ginger Rogers assomigliavano a sogni a occhi aperti, astratti e onirici come la delirante Venezia inventata di sana pianta di Cappello a Cilindro (1935), abitati da individui appartenenti a universi rarefatti e sofisticati, i titoli della MGM, pur all’interno di una confezione dalle tentazioni escapiste – che disegnavano sempre mondi più allettanti di quello in cui vivevano gli spettatori – tendevano a irrobustire l’immaginario visivo in una direzione di maggiore concretezza, con scenografie moderatamente più quotidiane e protagonisti che assomigliavano all’uomo della strada.
L’esempio più classicamente citato è il primo film diretto dalla coppia Donen e Kelly, Un Giorno a New York (1949), nel quale una seppur minima parte utilizzava autentiche location della città, con al centro le storie di tre marinai qualunque. E persino in Cantando Sotto la Pioggia, quando nella prima sequenza l’inarrivabile stella del cinema muto Don Lockwood (Kelly) racconta alla prima di “Canaglia Reale” le sue origini d’artista formatosi nelle scuole più esclusive, le immagini sconfessano le sue altisonanti affermazioni – “Dignità, dignità, sempre dignità!” – mostrando il suo passato proletario, che sin da ragazzino bazzicava con l’inseparabile sodale Cosmo Brown (Donald O’Connor) nelle peggiori bettole pur di esibirsi e raggranellare qualche nichelino.
D’altronde, come tante volte ha sottolineato, l’ambizione di Gene Kelly era di “ballare per la gente comune. Il modo in cui avrebbe potuto ballare un camionista, un muratore, un commesso o un postino”, disse. Nel 1958 diresse e produsse uno special tv intitolato “Il Ballo: un gioco maschile”, illustrando le similitudini tra danza e sport, esibendosi accanto al pugile Sugar Ray Robinson e il pattinatore Dick Button, riportando la danza dall’empireo di ricercatezza sofisticata in cui l’aveva condotto l’inimitabile e fatato Astaire a un universo abitato anche dall’uomo della strada. Il quale certo, non avrebbe mai posseduto l’elasticità prodigiosa di Kelly – l’esempio più atletico è nei numeri de Il Pirata, 1948 –, ma che pure nella sua fisicità, così mascolina ed esibita da sembrare per il gusto contemporaneo persino eccessiva, trovava una dimensione nella quale poteva proiettare le proprie ambizioni e desideri.
Altro punto di forza di Cantando Sotto la Pioggia è la storia, che racconta, connettendosi in chiave fantasiosa ad accadimenti autentici, il traumatico passaggio dal cinema muto al sonoro sul finire degli anni Venti, che rischia di mandare all’aria la carriera delle star Lockwood e Lina Lamont (Jean Hagen nel ruolo della vita, per il quale venne candidata all’Oscar). Soprattutto Lina che, un segreto custodito gelosamente dalla Monumental Pictures con cui è sotto contratto, ha un voce sgraziata e gracchiante. Cosmo però s’inventa l’idea del doppiaggio, cui presta la voce una stellina in erba, Kathy Selden (una giovanissima Debbie Reynolds), della quale Kelly s’innamora perdutamente. Dovendo però fronteggiare le avide mire di Lina, che vorrebbe tenerla sotto il suo giogo, usandone la voce e bloccandole la carriera.
Il film, insomma, possiede un’accattivante vena metacinematografica, di film sul film, perfettamente in linea con la natura stessa del musical. Il quale tra i generi è quello autoriflessivo per eccellenza, perché i suoi autori si son sempre dovuti preoccupare di trovare un modo che rendesse credibile agli occhi dello spettatore l’irrompere improvviso di numeri di canto e danza nel bel mezzo di momenti quotidiani (ed è la ragione per cui tante volte, per aggirare il problema, i protagonisti della storia sono attori cantanti e ballerini impegnati nella realizzazione di uno spettacolo, il cosiddetto backstage musical, nel quale la presenza dei balletti è ineccepibile).
In Cantando Sotto la Pioggia la fusione tra intreccio e balletto raggiunge la perfezione, con quasi tutti i numeri immaginati a loro volta come momenti metacinematografici: il frenetico assolo di Donald O’Connor Make ’Em Laugh sull’arte faticosissima di far ridere, Moses Supposes che ironizza sull’importanza della buona dizione in un brano dal ritmo anarchico e indiavolato alla fratelli Marx, il lungo Broadway Melody, sequenza immaginaria del film nel film “Il Cavaliere Spadaccino” (con la partecipazione di Cyd Charisse), che racconta in pochi minuti l’ascesa di un ballerino di Broadway (al grido “Gotta Dance!”), fino alla scena dal punto di vista teorico più importante, You Were Meant For Me, in cui Don per sedurre Kathy utilizza tutti gli espedienti tecnici forniti da uno studio di ripresa, armeggiando con luci e attrezzistica, conquistando la ragazza e insieme spiegando agli spettatori in che modo si creano quei sogni da cui amano farsi cullare.
E poi certo, c’è il numero eponimo, Singin’ in the Rain, uno dei pochi non autoriflessivi, in cui Gene Kelly praticamente con nulla – un lampione, una pozzanghera, un poliziotto che lo guarda di traverso – crea un’indimenticabile coreografia solitaria, in cui emerge il suo incrollabile ottimismo, la forza muscolare di una energia contagiosa che rappresenta molto più del carattere di un individuo. “Gene Kelly è uno stato d’animo, quasi un’ideologia – ha scritto Michael Wood in un libro imprescindibile, L’America e il Cinema – l’americano instancabile, l’apostolo praticante dello sforzo e della perizia come chiavi di un successo favoloso, proprio quell’atteggiamento americano che ha trovato la sua metafora nell’effervescente fiducia in sé di Kelly”.
Poi utilizzando altri dispositivi analitici, è possibile anche rivelare a partire dalla superficie smaltata e tonificante di Cantando Sotto la Pioggia alcune tracce più in ombra. Come ha fatto per esempio uno dei maggiori esperti di musical, Steven Cohan, il quale in un’ottica che combina psicoanalisi, studi femministi e di genere ha individuato da un lato il maschilismo del racconto – la riduzione delle donne al silenzio, partendo dalla sgradevolezza della voce di Lina, passando per quella addomesticata di Kathy e giungendo all’incarnazione muta di Charisse, puro corpo danzante e oggetto offerto alla vista dell’uomo –, e dall’altro un’oscillazione tra le identità maschile e femminile, con i riflessi omoerotici insiti nel rapporto tra Cosmo e Kelly, che incrinano l’apparente eteronormatività del rapporto tra quest’ultimo e Kathy, e anche una fluidità che emerge in alcuni dettagli insospettabili – Cosmo quando parla con la voce di Kathy o quando offre, in una gag fulminante, la sua voce a Lina.
Non si può infine dimenticare che Cantando Sotto la Pioggia, film che ripercorre trionfalmente il percorso che ha condotto il cinema sonoro a risorgere dalle ceneri del muto, uscì in un fase di incipiente crisi, quando la settima arte, durante gli anni Cinquanta, fu costretta a misurarsi con un nuovo temibile avversario, la televisione. E allora è difficile non pensare ch il film di Kelly e Donen servisse anche come un antidoto inconsapevole, ripercorrendo un’antica storia di successo ora che si rinnovava la sfida per la sopravvivenza. E la sopravvivenza del cinema è anche nella possibilità davvero irripetibile offerta agli spettatori di oggi di godere la visione di uno dei suoi massimi capolavori, su quel grande schermo per il quale è stato pensato. Da vedere come se nulla si sapesse di dispositivi critici e di storia del cinema, scivolando felicemente (irresponsabilmente?) in quella dimensione trasognata tra spettacolo e utopia cui la Hollywood classica ha saputo dar vita come nessun altro.