Nel 2016, realizzando La La Land, il giovane regista Damien Chazelle, poco più che trentenne, corona il sogno di fare un musical come quelli di una volta, in cui attori di irripetibile eleganza quali Fred Astaire e Gene Kelly cominciavano a ballare e cantare all’improvviso in contesti quotidiani, come se tra realtà e spettacolo non esistessero linee di separazione, e la vita vera potesse mettersi in scena come su di un palco, diventando immediatamente più bella, scintillante e felice di quanto avessimo mai immaginato.
L’aspirante regista coltivava il progetto di un musical contemporaneo sin dagli anni dell’università, condividendolo con il compagno di stanza Justin Hurwitz – che del film poi firmerà le musiche – scrivendo una sceneggiatura già nel 2010. Uno script più volte rifiutato dai produttori, fino a quando il secondo film diretto da Chazelle, Whiplash, storia della relazione sadomasochista tra un inflessibile docente di musica e un apprendista batterista disposto a tutto pur di emergere, non ebbe un successo insospettabile per un piccolo film indipendente, ottenendo grandi incassi, il plauso unanime della critica e 3 Oscar.
A quel punto, finalmente, La La Land divenne realtà. E trascinato dal fresco divismo dei due affiatati protagonisti Ryan Gosling ed Emma Stone, il film finì per conquistare davvero tutti, con incassi stratosferici (450 milioni di dollari) e una messe di premi sterminata, dal record dei 7 Golden Globe vinti alle 14 nomination all’Oscar che si tradussero in 6 statuette, tra cui quella ad Emma Stone quale migliore attrice e a Chazelle per la regia (a 32 anni, il più giovane di sempre). In verità, come tutti ricordano dato che si tratta della gaffe più incredibile della storia dell’Academy, per un paio di minuti La La Land ha vinto anche l’Oscar come miglior film. Fino a quando il suo produttore, statuetta in mano, non venne fermato durante il discorso di ringraziamento, scoprendo amaramente che Warren Beatty aveva annunciato il vincitore sbagliato – quello giusto era Moonlight di Barry Jenkins – perché gli era stata consegnata una busta riferita a un altro premio.
Quello dell’Oscar vinto e perduto è un finale straordinario per un film che di ordinario ha ben poco. Lo si capisce fin dalla prima sequenza di La La Land, il lungo piano sequenza di un ingorgo a Los Angeles che si trasforma in un complicato numero con moltissimi ballerini che danzano e cantano al ritmo di Another Day Of Sun. Una canzone, con le parole di Benj Pasek e Justin Paul, che racconta l’eterna storia di tutti quei giovani artisti senza un soldo in tasca e la testa pieni di sogni che vanno a Hollywood con l’aspirazione di sfondare.
Il numero crea un’immediata intesa con lo spettatore, ristabilendo la convenzione, cui il pubblico di oggi è meno abituato, secondo la quale nel musical è naturale e verosimile che all’improvviso, nel bel mezzo di situazioni quotidiane, le persone si mettano a danzare e cantare. Nella sua mescolanza di stili musicali, gigantismo della messinscena, virtuosismo stilistico, uso del cinemascope, questa scena assume pure i contorni di un esperimento in vitro sul genere, cui Chazelle si sottopone per dimostrare agli altri e a sé stesso che il musical classico è un dispositivo capace di raccontare anche le storie di donne e uomini di oggi. Ed è infatti solo dopo aver stabilito queste coordinate, che coinvolgono il genere, il pubblico e gli autori, che il film può davvero cominciare, con la scritta La La Land che appare enorme con un lettering rétro, al centro dello schermo.
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Manca ancora un ingrediente per avere un vero musical: la storia d’amore romantica. Eccola servita: lui, Sebastian (Gosling), è un pianista che adora il jazz di Armstrong e Miles Davis, col sogno di aprire un locale in cui suonare la musica che gli piace. Lei, Mia (Stone), è un’aspirante attrice che s’è innamorata del cinema guardando vecchi film in bianco e nero: e che, tra un provino e l’altro, lavora alla caffetteria negli studios della Warner, “di fronte alla finestra dove Bogart disse addio alla Bergman in Casablanca”. Inevitabile che due così si incontrino e si piacciano: così La La Land diventa la storia d’una seduzione a passo di danza, primi appuntamenti andando a vedere Gioventù Bruciata e primo bacio all’Osservatorio Griffith, una delle location del film con James Dean.
Romantico vero? Fino a un certo punto: perché, paradossalmente, con La La Land Damien Chazelle vuole dimostrare che oggi un musical alla maniera di Vincente Minnelli o Stanley Donen è impossibile. Forse è perché noi spettatori siamo ormai troppo smaliziati. È possibile ancora convincerci a immergerci per un paio d’ore in una storia d’amore di canzoni e balletti. Ma è impossibile darci a bere che un racconto del genere sia qualcosa di più di una messinscena completamente artificiale. Nell’antico meccanismo del musical, i momenti reali e quelli delle esibizioni spettacolari potevano sovrapporsi perché cementati dalla fiducia ingenua nella possibilità che aveva la finzione di cambiarci la vita e renderla migliore. È la ragione per cui Fred Astaire e Ginger Rogers si capivano davvero, e risolvevano le loro incomprensioni, proprio quando ballavano. I musical raccontavano la vita nella sua versione più smagliante e riuscita. Per questo avevano sempre un lieto fine e progredivano secondo un ritmo esaltante e tonificante, che trovava nell’atletismo sorridente di Gene Kelly la sua manifestazione più esemplare.
Ai tempi di La La Land, però, chi ci crede più a un prodigio del genere? Un film così può anche piacerci, ma non riusciamo più a dar credito al tipo di romanticismo che veicola. Infatti Sebastian protesta per il cinismo della sorella: “Perché hai detto romantico come se fosse una parolaccia?”. Allora i momenti di danza tra Mia e Sebastian non riescono a essere mai pienamente risolutivi. Anzi, le loro vite complicate, lui obbligato ad adattarsi a suonare in band pop per sbarcare il lunario, lei che passa attraverso provini mortificanti, mettono a dura prova l’amore. E il successo, quando giunge davvero, tra sovrapposizioni di impegni e troppi appuntamenti mancati, invece di facilitare la relazione, la rende persino più difficile. L’arte e la vita seguono due percorsi non sovrapponibili.
La La Land non racconta una storia felice semplicemente perché la stoffa del musical dei tempi d’oro s’è consumata da un pezzo. Almeno da quando, in È Sempre Bel Tempo (1955), Stanley Donen mostrava tre ballerini in split screen, mentre danzavano uno accanto all’altro, però fisicamente separati, ripresi in tre luoghi diversi, mai insieme. Così Mia e Sebastian sono ritratti varie volte con l’espediente delle luci intorno a loro che si spengono, lasciandoli malinconicamente solitari, e quasi al buio. Succede lo stesso quando si esibiscono: Sebastian suona la musica che gli piace unicamente quando è solo di fronte al pianoforte. E Mia per dare un senso alla sua vocazione si scrive e recita un monologo teatrale.
I due protagonisti paiono isolati dal contesto. Infatti dopo la grande coreografia di massa iniziale e un numero il cui Mia si esibisce insieme alle sue coinquiline, saranno solo lei e Sebastian a continuare a ballare e cantare. Il resto del mondo alla magia del musical che ti cambia la vita non crede più, perciò non danza. A Los Angeles, ce lo dice con chiarezza la prima sequenza, sono tutti bloccati, immobilizzati nel traffico. Lo spazio che rimane al musical perciò è quello residuo del sogno. Come puntualmente accade nell’ultima elaborata sequenza, la quale nonostante la ricercatezza di scenografie piene di riferimenti ai classici (da Cantando Sotto La Pioggia a Balla Con Me) resta separata dalle vite reali dei due protagonisti, che seguiranno il loro corso. E anzi, proprio il tripudio citazionista di questa sequenza, come ha notato nel suo saggio sul film il filosofo Slavoj Žižek, mostra esattamente come avrebbe raccontato la storia di Mia e Sebastian un musical della Hollywood classica. La La Land distilla un romanticismo da cinema d’altri tempi, lucidamente consapevole però del suo essere fuori corso. E quindi a sigillarlo non può esserci il lieto fine, bensì una nota malinconica e crepuscolare.
Sarà per questo che, pur dopo le ovazioni e gli Oscar, nessuno ha pensato di seguire il suo esempio e confezionare un altro musical stile vecchia Hollywood. Certo, dopo La La Land sono andati benissimo una biografia d’artista come Bohemian Rapsody o il remake di A Star Is Born: ma sono tutt’altro, dei film con canzoni che non valicano mai la linea di separazione tra reale e immaginario. Forse su questo versante potrebbe riservare qualche sorpresa lo Steven Spielberg del remake di West Side Story. Peccato che, a causa del Covid, l’uscita prevista a Natale 2020 del film sia stata rimandata di un anno. Aspetteremo. E intanto ci godiamo La La Land.