Bohemian Rhapsody, il biopic avvincente sulla leggenda Freddie Mercury

Un successo globale travolgente, Oscar compresi. Merito dell’interpretazione di Rami Malek. E soprattutto del mito intramontabile del cantante dei Queen

Bohemian Rhapsody

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Bohemian Rhapsody è stato un fenomeno inarrestabile. Uno straordinario esito al botteghino, oltre 900 milioni di dollari, il maggiore incasso di sempre per un film musicale. Una messe infinita di premi, coronata dalle quattro statuette agli Oscar 2019 e, naturalmente, dal trionfo personale di Rami Malek nella parte di Freddie Mercury, con la vittoria di Oscar, Golden Globe, Sag Award e Bafta. Talmente clamoroso il risultato del film da spingere immediatamente a imitarne la formula, a cominciare dal biopic musicale su Elton John, Rocketman, diretto dallo stesso regista, Dexter Fletcher, che aveva terminato Bohemian Rhapsody, e che però, pur contenendo i medesimi ingredienti – la vita bigger than life di una rockstar tra cadute, (stra)vizi e redenzione, non è stato in grado di ripeterne l’exploit.

Questo perché nel film dedicato a Freddie Mercury, evidentemente, c’è qualcosa di unico che, fortunatamente, non è possibile ridurre a una formula riproducibile all’infinito. E quell’unicum, probabilmente e semplicemente, è da riferire alla figura del biografato, che resta un’autentica leggenda del rock e dello showbiz a ormai trent’anni dalla drammatica scomparsa per Aids il 24 novembre del 1991 – la programmazione di stasera in prima tv del film su Rai Uno è anche un omaggio per celebrare la ricorrenza.

Talmente iconico di suo Mercury, da ribaltare le aspettative assai traballanti di un’operazione che non era nata sotto una buona stella. La prima sceneggiatura del progetto voluto sin dal 2010 dal chitarrista dei Queen Brian May, risale addirittura al 2010, firmata da Peter Morgan (The Crown) e con, quale interprete designato, Sacha Baron Cohen. L’attore però voleva far emergere senza eufemismi il lato più selvaggio di Mercury, così non se ne fece nulla. Nel 2013 venne annunciata un’altra coppia, Dexter Fletcher alla regia e Ben Winshaw protagonista, ma entrambi si defilarono. Poi, quando tramontò anche l’ipotesi David Fincher coadiuvato da Tom Hooper allo script, si optò per Bryan Singer (I soliti sospetti) alla direzione, e il losangelino di origini egiziane Rami Malek (Mr. Robot) nei panni del cantante, inglese d’adozione nato a Zanzibar e di famiglia parsi.

Le traversie non finiscono qui: perché a un certo punto Bryan Singer non si presentò sul set e venne licenziato, e immediatamente dopo travolto da delle accuse per violenza sessuale. Allora la produzione per terminare la lavorazione ritornò sull’affidabile Dexter Fletcher che, pur non apparendo nei titoli di testa, concluse le riprese. Col paradosso che, pur essendo riconosciuto Singer quale unico regista ufficiale, venne estromesso dalla campagna promozionale per Bohemian Rhapsody, un imbarazzante convitato di pietra mai citato durante nessuna cerimonia o premiazione.

Bohemian Rhapsody (DVD)
  • Rami Malek, (Actor)

Come dicevamo, però, alla fine Freddie Mercury è stato più forte di tutto. E tutto sommato bene ha fatto Rami Malek a puntare su di un’interpretazione mimetica ai limiti del calligrafismo, essendo quasi impossibile sottrarsi al fascino del cantante e soprattutto al suo travolgente, inimitabile modo di stare sul palcoscenico.

Bohemian Rhapsody, col titolo tratto dalla canzone forse più celebre e sicuramente più arzigogolata e bizzarra del repertorio dei Queen, è comunque un film pericolosamente tendente all’agiografia. Certo, c’è spazio per le promiscuità, l’uso di droghe, ma il risultato ha un che di convenzionale, con la vita di Mercury che si srotola seguendo un copione ferreo scandito secondo i canonici tre atti, con l’ascesa partendo da umili origini, la caduta rovinosa e la rinascita.

Naturalmente per ottenere un risultato di questo genere è necessario tradire la realtà quanto basta e accomodarla in uno schema rigido che non ammette deroghe. Così la prima compagna di Mercury, Mary Austin (Lucy Boynton), che non lo abbandona nemmeno quando riconosce la sua omosessualità, resta un elemento costante della sua vita, che bilancia gli alti e bassi emotivi dell’artista. E visto che serve un villain per stemperare gli aspetti più esuberanti e meno accettabili di Mercury per un pubblico mainstream, il ruolo viene affibbiato a Paul Prenter (Allen Leech), produttore di cui s’esagera il ruolo manipolatorio, trasformato nel Mefistofele che trascina il cantante sulla cattiva strada.

I Queen invece, che indivdualmente restano sullo sfondo, come gruppo rappresentano la famiglia, il collante cui Mercury torna per ritrovare sé stesso. Fino all’entusiasmante esibizione al Live Aid del 1985, riprodotta quasi filologicamente, inquadratura per inquadratura, in quello che diventa il climax corroborante su cui il film si chiude, lasciando sullo sfondo l’amarezza del vero finale della storia e della vita di Mercury.

Eppure, sebbene spinga troppo sul pedale d’una commozione costruita a tavolino, Bohemian Rhapsody funziona egregiamente, per le canzoni oggettivamente trascinanti, per la generosità di Malek che si mette al servizio del personaggio quasi sparendovi dentro, per l’energetica progressione narrativa che dimostra fino in fondo di credere a quel che sta raccontando. Si esce dalle oltre due ore di visione con l’elettrizzante sensazione di aver assistito a un’avventura umana straordinaria, a una parabola dolceamara toccante ed esemplare. Risistemata sicuramente con molte libertà e una propensione alla mitizzazione spettacolare. Ma, come si diceva in quel vecchio, citatissimo film di John Ford, se la leggenda diventa realtà, vince la leggenda. E Freddie Mercury una leggenda lo è stata di sicuro.

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