È inevitabile: guardi Rocketman e pensi a Bohemian Rhapsody. Primo perché le storie sono simili, trattando di due rockstar inglesi, Elton John e Freddie Mercury, di origini proletarie e omosessuali, quindi costrette a confrontarsi, appartenendo anche alla stessa generazione, con forme di discriminazione paragonabili. Secondo, perché i film condividono pure il regista, Dexter Fletcher: che stavolta è responsabile dell’intero progetto, mentre nell’altro caso era subentrato alla fine per salvare capra e cavoli dopo l’improvviso licenziamento di Bryan Singer.
Va detto che Rocketman non ripete la magia di Bohemian Rhapsody. E probabilmente non ne ripeterà nemmeno gli straordinari incassi. La ragione è che la figura di Mercury è circonfusa di un alone leggendario, anche in virtù della drammatica scomparsa che ha lasciato una traccia molto profonda tra fans e appassionati di musica di mezzo mondo. La vita di Elton John (interpretato da Taron Egerton), sebbene non ordinaria, non riesce invece a colorarsi dei contorni del mito. Certo, c’è lo stigma – per l’epoca – dell’omosessualità, c’è un padre terribilmente anaffettivo, l’incredibile successo, la dissipazione tra stravizi di ogni tipo – con tutte le colpe ascritte al manipolatorio produttore-amante John Reed (Richard Madden). Ma questi sono materiali drammaturgici di routine, dispiegati secondo la canonica scansione ascesa-perdizione-riscatto del più classico biopic d’artista (Bohemian Rhapsody compreso, che in questo non brillava per originalità).
Forse per questo più che sulla storia si è deciso di puntare sulle memorabili canzoni dell’artista, confezionando un vero e proprio musical. Così i versi dei brani di Elton John scandiscono i passaggi della sua vita: per cui le parole di Rocketman sottolineano l’apice tragico della fase di dissipazione, mentre I’m still standing, col suo ottimistico messaggio, segna didascalicamente la rinascita.
Tutto però sa di già visto: dalle coreografie di gruppo che guardano a classici come West Side Story – ma molto più elementari – a momenti, come quello in cui Elton John compone inverosimilmente dal nulla una canzone in due minuti, presi di peso dai film musicali americani anni Quaranta. Però quelle erano chiaramente delle fiabe: Rocketman invece vuole essere un dramma della solitudine, nel quale il protagonista, secondo un modello anch’esso usurato da “ridi pagliaccio”, finge davanti al pubblico la felicità mentre ha la morte nel cuore, obbligato naturalmente dal mefistofelico produttore cattivo – cui fa da contraltare l’esempio positivo dell’amico di una vita, lo storico paroliere di Elton John, Bernie Taupin (Jamie Bell).
Va detto che Taron Egerton si prende più rischi di Rami Malek in Bohemian Rhapsody, perché canta, e piuttosto bene, con la sua voce. Ma il suo Elton John non riesce mai a essere né veramente sulfureo nell’ascesa né autenticamente disperato nella caduta. E sebbene si cerchi di raccontare l’artista con franchezza, mostrando – senza esagerare ma senza troppi eufemismi – dettagli scabrosi della sua crisi, l’effetto verità si perde in virtù di titoli di coda molto accomodanti che ripercorrono le tappe della rinascita dell’artista, confezionando uno stucchevole lieto fine. Allora quello che più si apprezza di questo musical di confezione piuttosto vecchiotta è l’eccellente lavoro dei costumisti che, esattamente come il personaggio che raccontano, si sbizzarriscono con un’incredibile collezione di abiti, costumi di scena e occhiali sfrenatamente kitsch.