All’ombra de’ cipressi e dentro l’urne di The Nothing dei Korn, un disco confortato di pianto (recensione)

La nuova prova della band di Jonathan Davis è superata: ora possiamo tutti dare del "tu" alla Morte


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The Nothing dei Korn arriva come un pugno in pieno stomaco per imporci empatia e dolore condiviso, perché in tutte le 13 tracce che lo compongono come un rosario nero noi saremo dentro lo studio insieme a Jonathan Davis a osservarlo mentre guaisce, piange, esplode di rabbia e si dimena tra le trame intricate del suo inferno. Sia benedetto in saecula saeculorum questo 2019, che in pochi mesi ci ha restituito i Rammstein, gli Slipknot, i Tool e oggi, tre anni dopo The Serenity Of Suffering (2016), i Korn.

Ce li ha restituiti oscuri, con il solito filo rosso che si connette ai loro esordi ma con un vissuto più che presente, dal momento che Jonathan è uscito a riveder le stelle dopo la sepoltura dell’ex moglie Deven Davis e della madre, due tragedie che si sono aggiunte alle cicatrici che si porta dietro dalla tenera età. Lo avevamo visto tutti, del resto, quando su Instagram aveva pubblicato a sorpresa una sua foto presa dallo studio mentre lavorava sull’album, con quello sguardo così spento ma così pieno di resilienza.

Da questa sommatoria di dolore, risveglio e riscatto nasce The Nothing dei Korn. Forse no, forse è qualcosa che si colloca al di là del riscatto. Jonathan picchia violentemente dall’interno della sua tomba di sofferenza, fino a fare breccia sul marmo, estrarre un braccio e trascinarci giù: o con lui o contro di lui. Il disco è il lavoro monumentale di Nick Raskulinecz, produttore in grado di firmare le più importanti produzioni di Marilyn MansonDeftonesMastodonGhost, e che in questo disco ha restituito vitalità alle chitarre di Munky Head, ha investito Ray Luzier con il titolo di imperatore del motore batteristico della band e ha ricordato a Fieldy che il suo basso è il condotto venoso, l’apparato che irrora il corpo cavernoso del suono. Anticipato da Cold, Can You Hear Me e You’ll Never Find MeThe Nothing dei Korn è il racconto definitivo dei fantasmi di Jonathan, presenze che egli stesso ha raccontato come una costante della sua esistenza.

Le cornamuse di The End Begins sono la porta che cigola mentre tentiamo di entrare, un’opening apparentemente onirica che in realtà ci prepara alla spirale claustrofobica del disco: arriva quella cassa, arriva quel basso e arriva il lamento di Jonathan, che chiude quest’intro sinistra con un pianto che diventa un’orda minacciosa in Cold, che con quel 6/8 riesce a sopprimere ogni nostra difesa. Davis canta, esplode nel growl e riprende a cantare, mentre noi annaspiamo nello Stige senza capire cosa ci stia succedendo.

Lo capiamo con You’ll Never Find Me, apparentemente la canzone più pop del disco, ma in realtà è quell’imbroglio di una mano che ci offre di tornare in superficie, ma che si stacca dal corpo dal momento che l’afferriamo. Noi precipitiamo di nuovo nelle acque infernali mentre tutti fanno headbanging, trascinati dalla potenza dei riff dello special.

Luci al neon lampeggiano e ci disturbano in The Darkness Is Revealing: il cantato è in maggiore che disegna quel non-si-sa-che di ipnotico, e la batteria di Luzier si muove singhiozzante fino al ritornello, quando arriva il momento giusto per aprirsi e tormentarci con un sound aperto e vorticoso. Arabeggiante, rabbiosa e sinuosa è Idiosyncrasy, che nel pre-ritornello si veste di trash fino al levare del ritornello, a sorpresa, che ricorda tanto il groove di Got The Life.

No, tuttavia i Korn di Follow The Leader hanno maturato nuovi demoni che ci vengono sventolati davanti nella breve e roteante The Seduction Of Indulgence, un preludio che attutisce la caduta verso Finally Free. Probabilmente pop, perché tutto si fa confuso nel ritornello, quando Luzier singhiozza sul groove e le chitarre creano la cascata sonica. Lo special si dimezza nel beat e l’ora dell’headbang è servita.

Can You Hear Me è lo spioncino su quanto resta del nu metal degli anni ’90 e su quanto hanno da dire i nuovi Korn: il ritornello ha quel motivetto che ti tormenta i ricordi in loop, e ci si stupisce di passare da un classico a uno shuffle come accade in The Ringmaster. Ciò che accomuna ogni traccia, inoltre, è l’impiego dei synth che restano sempre nell’ombra, ma ci accorgiamo che senza di essi sicuramente non avremmo il taglio emotivo che stiamo riscontrando.

Gravity Of Discomfort è la messa alla prova dell’affinità sonora tra Fieldy e Luzier, che si impongono come un’incudine su un brano che si presenta subito come un delirio di potenza e oscurità. Il suono è monumentale, epico: le chitarre hanno l’ossigeno giusto per creare una fortezza intorno ai brani mentre le percussioni detonano per creare quel giusto equilibrio tra sisma e carezza.

H@rd3r non è che uno dei migliori brani di The Nothing dei Korn: i riff si muovono come serpi tra glissando e parti fuori scala, una prassi che è propria del groove metal che la band ora tenta per non farsi mancare nuove possibilità. Tutta la disperazione di Jonathan Davis è scritta in This Loss, dove per cantare ricorre addirittura nel falsetto su una base intensa nei giri armonici che diventa un 6/8 inquietante nello special. Stiamo assistendo a un vero e proprio canto funebre mentre guardiamo le anime trascinarci verso il profondo più ignoto.

Surrender To Failure chiude la porta e ci rimette fuori: ora l’anta non cigola più e possiamo rimirare il nostro mondo, che sarà pure pieno di problemi ma non sarà mai l’inferno di The Nothing dei Korn. L’ultima traccia non ha le chitarre di MunkyHead, bensì si regge su un dialogo tra la batteria e i synth che, per salutarci, convolano a nozze.

Possa The Nothing dei Korn essere il “bentornati” definitivo dei Korn, con tutte le sue sfumature che lo rendono collocabile nel nostro contemporaneo ma che conservano la quintessenza della band: accompagnarci in una fiaba nera e soffocante, dove tutto e tutti sono distrutti e logori di rabbia, ma soprattutto dove tutti siamo in grado di dare del “tu” alla Morte.