Habemus Fear Inoculum dei Tool, et in terra pax hominibus. Gaudeamus igitur. Dalla mezzanotte ci siamo tutti precipitati sui nostri servizi di streaming preferiti per spacchettare la novità e piazzarla tra la musica offline, oppure per ascoltarla online perché non abbiamo acquistato la versione deluxe, troppo onerosa per noi “povery”. In questo 2019 riconosciuto come l’anno del metal – abbiamo We Are Not Your Kind degli Slipknot e l’omonimo dei Rammstein, ma è in arrivo anche musica nuova dei Lacuna Coil – l’ossessione di tutti i fan della band di Los Angeles è saziata: è arrivato il nuovo album dei Tool, 13 anni dopo 10.000 Days e, per il pubblico italiano, due mesi dopo Firenze Rocks, un concerto che è stato l’apericena prima di un pasto ricco che ci trovava affamati.
Troviamo un Maynard James Keenan che ha maturato un nuovo stile nel canto – alle note più alte alterna, a volte, un vibrato mai sentito prima – e un Danny Carey più avvezzo alle rullate frenetiche (Descending, Chocolate Chip Trip), ma ritroviamo anche quell’Adam Jones in grado di incantarci con gli arpeggi e di schiaffeggiarci con i muting martellanti come ai tempi di Jambi (Invincible) e non può che incantarci ancora Justin Chancellor, eroe del basso e degli effetti, che apre Pneuma ed è subito Schism, che cavalca sulla title-track per farci salire sul nuovo carro dei Tool, nuovo nei brani ma classico nel sentimento. Li aspettavamo, ora sono tornati.
I primi protagonisti di Fear Inoculum dei Tool sono i nostri pensieri discordanti. Per anni abbiamo divorato la loro discografia e abbiamo seguito l’evoluzione che in 10.000 Days si è resa elevata, con brani violenti e rabbiosi come Vicarious e The Pot, ipnotici come Rosetta Stoned e la suite Wings e trascendentali come Right In Two, ma ci siamo fossilizzati, e forse per questo alcuni di noi hanno storto il naso quando la band ha lanciato la title-track di Fear Inoculum. Per dirla come lo youtuber Danny Metal: “Manca un po’ di ciccia, ma sono i Tool”. Questa premessa è necessaria per accettare un fatto: Fear Inoculum dei Tool non ha la violenza di 10.000 Days, dunque non aspettiamoci brani da pogo né da headbanging (anzi, qualcuno magari sì), ma è chiaro che i quattro di Los Angeles non abbiano perso la loro intensità né la loro capacità di schiantarti le viscere fino al cielo per poi rispedirle all’inferno.
Della title-track si è già detto e scritto tanto: Fear Inoculum è il discorso interrotto dopo Reflection e Disposition (Lateralus, 2001) e apre il disco con un dialogo tra basso e chitarra, addolcite con un attacco lento che poi lascia spazio a un galoppo tra basso e percussioni. Maynard intona e ripete il suo esorcismo, un’allegoria sul vissuto con il quale fare i conti e tirare le somme mentre il presente si approssima e si proietta sul futuro. I congas di Danny Carey sono la tribalità che si ripete fino all’alternanza tra 4/4 e 7/4 che arrivano nella seconda metà del brano, quando tutto si fa più inquietante e ossessivo.
La parola chiave del disco è “danzante”, perché ogni brano ci fa partecipare ad un party grottesco fatto di maschere distorte e luci psichedeliche, in cui tutto si muove a rallentatore. Pneuma si apre con il basso di Chancellor, timidamente ritmato dai congas di Carey. Poi tutto si interrompe e il basso diventa la steady-cam in un corridoio in 7/4 e 5/4 – un po’ per farci impazzire nel tenere il tempo, un po’ per intrappolarci nella spirale – che ci parla di spiritualità e ricerca di una religione: “Siamo lo spirito legato a questa carne […] Siamo nati da un respiro, una parola”, e le nozze tra Schism e Parabola si svolgono in questo nuovo altare singhiozzante, con luci che ondeggiano sul soffitto per spostare il nostro equilibrio.
Come piace ai Tool, non mancano le tracce-cuscinetto che regalano rumori e suoni nell’attesa della traccia successiva. È il caso di Litanie Contre La Peur, un traghetto sonoro e inquietante come Legion Inoculant ma lontano da Chocolate Chip Trip, che è un beat eseguito al sintetizzatore con un folle crescendo di Carey in 7/4 e da Mockingbeat, uno strazio in cui qualcosa che somiglia a un delirio di volatili chiude il disco per darci appuntamento alla prossima puntata.
Con Invincible ritroviamo Adam Jones nei panni del portiere che ci accoglie in uno dei singoli presentati nel corso del nuovo tour, fino al girone dantesco, con Justin Chancellor e Danny Carey che creano la claustrofobia necessaria per una full immersion nell’essenza della band: ritmo incalzante, accenti che vivono di vita propria e cerchi sonori concentrici. Jones irrobustisce il pezzo quando rimane solo con quel muting che è un’intro di Jambi rallentata, e la sorpresa arriva con la voce di Maynard alterata dal vocoder. Tutto esplode, poi, nelle luci soffuse di una batteria che si apre per schiantare qualche cranio al suolo.
Descending è l’anteprima che abbiamo amato e odiato nei bootleg caricati dai fan su YouTube, che in questo disco trova la sua evoluzione. Ciò che rapisce è il crescendo delle note di Chancellor e Jones, che poi trovano rifugio nella ritmica pulsante di Carey. Le parole di Maynard sono il velluto che ci sfiora battuta per battuta, ma il capolavoro sta tutto nel finale, quando il sipario si apre in un tormentato dialogo tra basso e chitarre. Le note di Jones sono irrobustite dalle terze, una cosa che raramente abbiamo ascoltato nei Tool. Il riff finale, poi, è l’illuminazione che ci meritiamo.
Culling Voices potrebbe essere un pezzo degli A Perfect Circle: i 6/8 mozzano il fiato per parlarci del pericolo del pregiudizio: “Giudichi, condanni e bandisci tutti senza prove, solo per seguire i sussurri dell’interno”. Solo dopo averci sussurrato il loro anatema con un’apparente pacatezza, i Tool, esplodono in ciò che sanno fare meglio: sorprenderci.
7empest chiude il cerchio. L’arpeggio in clean di Adam ipnotizza, ma inganna: ascolteremo un pezzo heavy, con un Jones in vena di picchiare forte sulla sua Gibson, e un Carey che per un attimo ricorda Bottom. I Tool si riassumono nei 15 minuti di 7empest e ci mostrano tutte le loro facce: quella più onirica che era propria di Lateralus nell’intro, quella più grezza che era propria di Undertow e quella più violenta di 10.000 Days, ma anche la superficie intermedia di Æenima, il disco che consacrò la band di Los Angeles all’Olimpo su quale oggi impera.
Abbiamo forse ascoltato il disco più bello dei Tool? No, e nemmeno quello più intenso: abbiamo appena ascoltato il nuovo album dei Tool, 13 anni dopo la loro ultima release. A questo giro i nostri eroi tornano nelle nostre stanze con un disco stratificato e intenso come sempre, nel quale ci ripropongono i loro canoni ma anche la loro novità, che si traduce in una maturità conquistata e meritata. Monumentali nello scheletro, spirituali nei muscoli e enigmatici nella superficie. Fear Inoculum dei Tool è quell’amico ritrovato che oggi ha cambiato voce e lineamenti, ma che ci paga ancora da bere e ci fa sentire meno soli.