La Casa di Carta Corea ha debuttato il 24 giugno su Netflix con la prima parte in sei episodi. E si può dire che non abbia sorpreso nessuno. Il remake del celebre heist drama spagnolo di Alex Pina è ambientato in un contesto futuristico in cui Corea del Nord e Corea del Sud trattano per la la loro riunificazione. E come sempre avviene nei processi di integrazione politica, si parte dalla costruzione di uno spazio economico congiunto: la Zona Economica Comune (ZEC) ha liberalizzato gli scambi, i commerci, la circolazione delle persone e ha creato una zecca comune per stampare la nuova valuta unica. Il confronto tra le due Coree è presente sin dalle prime scene: il conflitto tra comunismo e capitalismo, tra le diverse ideologie e culture dei due paesi, fa da terreno su cui innestare la storia, ovvero la critica alle storture dell’economia finanziaria di mercato che sfrutta i lavoratori, i migranti, le donne, in nome delle sole logiche del profitto. Così, un’unificazione economica che doveva aprire una nuova era di prosperità per tutti si trasforma in un’ennesima vittoria degli ultraricchi sulla testa dei poveracci.
Le specificità de La Casa di Carta Corea, però, sembrano fermarsi qui: oltre al contesto socio-economico e geopolitico, oltre ai riferimenti alla cultura pop coreana come la musica dei BTS che apre la sequenza iniziale, per il resto il format segue pedissequamente le orme della storia spagnola. Non c’è altra peculiarità particolarmente degna di nota in una trama che ripete le stesse dinamiche, che contiene gli stessi personaggi con gli stessi nomi e talvolta perfino scene sostanzialmente identiche. Dalla presentazione del Professore alla banda alla scelta dei loro nomi di battaglia (le città sono quelle usate nell’originale), passando per il direttore della Zecca (un Arturito coreano) e la sua giovane amante, perfino la scolaresca in gita nel giorno del colpo, per non parlare storia personale della poliziotta negoziatrice, qui già in qualche modo legata al personaggio del Professore a differenza dell’originale: tutto è semplicemente trasposto da Madrid al confine tra le due Coree.
Ogni elemento de La Casa di Carta Corea sembra rimandare all’iconografia del format spagnolo, dalle caratteristiche del singolo personaggio (l’hacker Rio, la falsaria Nairobi, il ricercato Berlino, padre e figlio Mosca e Denver eccetera) a scene che si ripetono sin dal primo episodio: una sorta di remake non troppo riadattato, che lascia la sensazione un dejà-vu costante, semplicemente con una confezione nuova, pagando un inevitabile scotto in termini di carisma dei personaggi e attrattività della trama. Forse solo dal punto di vista stilistico si nota qualche segno di personalità: la regia e la fotografia cercano chiaramente di improntare alcune scene allo stile del fumetto e della graphic novel, come nelle prime interazioni tra Tokyo e il Professore in cui i due sembrano stagliarsi su una Gotham City orientale. Ma per il resto, questa serie non riesce a costruirsi un’identità propria che non risulti derivata.
In definitiva La Casa di Carta Corea sembra non uscire dal cono d’ombra dell’originale e questo poteva non essere un problema se il format spagnolo fosse rimasto al massimo entro i confini europei, ma visto il suo successo mondiale è probabile che nemmeno il pubblico coreano riesca ad identificarsi in una storia preceduta dalla sua stessa fama.