Dopo la partecipazione in concorso all’80esima Mostra del Cinema di Venezia (senza premi) ed una quasi invisibile distribuzione in sala, giunge dal 10 novembre su Netflix The Killer, dodicesimo lungometraggio in trent’anni della carriera di David Fincher. Sulla piattaforma era già atterrata la sua precedente, e diversissima, lettera d’amore-odio a Hollywood, Mank (2020), nonché le due stagioni delle serie Mindhunter (2017-2019), da lui prodotte e in parte dirette.
Al centro di The Killer c’è l’algido, apparentemente apatico assassino a pagamento senza nome (di nomi anzi, come di passaporti, ne ha tantissimi, tutti falsi), interpretato da un Michael Fassbender a bassissima intensità, debitamente in parte. Lo incontriamo, all’inizio del film, a Parigi. Ma è una Parigi vista dal buco della serratura, o meglio, dall’inquadratura di un finestrone dal quale, senza praticamente muoversi mai, osserva l’edificio di fronte, attendendo l’arrivo della sua vittima. Unica compagnia (sua e nostra) la sua voice over, attraverso la quale conosciamo la sua filosofia: “Attieniti al piano. Non fidarti. Niente empatia. Gioca d’anticipo, non improvvisare. Mai concedere un vantaggio. Combatti solo se sei pagato per combattere”.
Quando dopo una estenuante attesa l’obiettivo è finalmente a tiro, il Killer lo manca, uccidendo una squillo. Ritornato a casa, nella sua bella villa sulla spiaggia nella Repubblica Dominicana, trova la sua compagna Magdala (Sophie Charlotte) orrendamente seviziata. Scatta la vendetta, scandita a tappe, con in ogni capitolo l’individuazione di una vittima da eliminare: il suo datore di lavoro (Charles Parnell), i killer autori della tortura, diversissimi – il Bruto (Sala Baker), con cui ingaggia un feroce combattimento, e l’Esperto (Tilda Swinton), con cui invece la lotta è tutta cerebrale –, infine il Cliente (Arliss Howard), committente della feroce rappresaglia seguita all’errore fatale.
Il film è basato sull’omonima serie di graphic novel francese (in originale intitolata “Le Tueur”), scritta da Matz (Alexis Nolent) e disegnata da Luc Jacamon, per la quale Fincher ha chiamato a raccolta collaboratori fidati, lo sceneggiatore Andrew Kevin Walker (che aveva scritto Se7en) e il direttore della fotografia Erik Messerschmidt (Mank e Mindhunter), al quale il regista, per comprendere il carattere dell’elusivo protagonista, ha suggerito di vedere Le Samouraï (in italiano Frank Costello Faccia d’Angelo, 1967), vertice del noir/polar francese firmato da Jean-Pierre Melville.
All’idea di un codice da samurai rimanda quel continuo lavorio interiore, quelle frasi che il protagonista si ripete come un mantra, come l’aiutassero a concentrarsi (o chissà, autoconvincersi). Resta però difficile comprendere le motivazioni alla base della costruzione di un neo-noir introverso, quasi un revenge movie al grado zero, apparentemente senza sviluppi e senza autentiche psicologie, in cui ogni personaggio, protagonista compreso, svolge diligentemente la sua pura funzione narrativa necessaria allo sviluppo dell’azione.
Nei precedenti thriller di Fincher era quasi sempre possibile cogliere una precisa connessione tra racconto ed epoca storica: l’iconico Fight Club (1999), pure esageratamente stiloso, intercettava però le angosce apocalittiche e le insicurezze identitarie da passaggio di millennio. E Zodiac (2007), dopo l’11 settembre e la materializzazione di alcune di quelle paure, nella frustrazione di un’investigazione senza colpevole dava voce alla stanca disillusione di un mondo giunto al capolinea, anche morale.
The Killer, allora, da cosa origina e di cosa è spia? Forse di una crescente anomia, di uno svuotamento più generale di senso di fronte al quale, in una stagione che non ha regalato tutte le millantate opportunità dell’evo globale. Il Killer saltabecca da un posto all’altro del globo seguendo la sua missione, però tutti i luoghi sembrano sconsolatamente uguali, essiccati dentro luci plumbee e livide, senza mai l’elettrizzante emozione da intrigo internazionale da Bond Movie. E quindi restano solo le retoriche parole motivazionali che il protagonista si ripete fin troppo spesso.
Per questa ragione The Killer gira pure un po’ a vuoto, con un calo di tensione che, dopo l’inizio sospeso e ambiguo, si percepisce sempre più evidente. Ma la stanchezza potrebbe essere, appunto, la stanchezza di un mondo deludente le cui regole sono ormai irriconoscibili, come la saldezza identitaria di un protagonista che ha tutti i nomi e nessuno, anonimo come il serial killer John Doe di Se7en. A quel punto, in assenza di un racconto corposo e di personaggi con cui entrare in empatia, l’unica cosa che resta è la potenza dello stile, come sempre in Fincher visivamente smagliante.
In tal senso la metafora che emerge più lampante, come in un film metacinematografico degli anni Ottanta, è la correlazione che si crea tra il lavoro del Killer e quello da un lato del regista (del quale segue la stessa propensione meticolosa alla costruzione di ogni singoli dettaglio); dall’altro dello spettatore, visto che nella prima sequenza il protagonista in attesa della vittima è palesemente posto di fronte a un perfetto schermo cinematografico rettangolare, finestra sul cortile di una porzione di città che è tutto quello che gli interessa del mondo. Il risultato non è certamente un film appassionante o coinvolgente. Ma nella sua reticente malinconia, pare comunque un’opera capace di dirci qualcosa di non gradevole e non accomodante sull’oggi.