A un certo punto, in un dialogo tra i due personaggi principali, l’irruento e giovane detective bianco Mills (Brad Pitt) e l’anziano, riflessivo e disincantato detective nero Somerset (Morgan Freeman), il primo fa il nome di Jodie Foster. Sembra un riferimento casuale, e invece probabilmente è una traccia importante. Perché l’attrice era la protagonista di due film che costituiscono il punto di riferimento intorno a cui ruota Seven (in originale Se7en), opera seconda di David Fincher del 1995.
Il primo è naturalmente Il Silenzio degli Innocenti di Jonathan Demme, in cui la Foster interpretava l’iconica agente Starling. Una pellicola che nel 1991 col suo straordinario successo di pubblico e critica (più la vittoria dei cinque Oscar principali) aveva determinato la stabilizzazione di un nuovo sottogenere thriller, il film sui serial killer, ruotante intorno a personaggi psichicamente disturbati e storie di cupo pessimismo che sembravano in quel periodo capaci di intercettare certe tensioni sociali e ansie di fondo da ultimo decennio del secolo e del millennio. L’altro film, che rimonta agli anni Settanta della New Hollywood, è Taxi Driver di Martin Scorsese, in cui la Foster era la giovanissima prostituta cui si legava Travis Bickle (Robert de Niro), un uomo le cui esplosioni di violenza costituivano il riflesso del suo disgusto per una realtà decadente, votata alla perdizione.
Seven rimanda per il genere a Il Silenzio degli Innocenti, dall’altro lato eredita da Taxi Driver quello sguardo sconfortato sull’universo metropolitano, visto come una giungla o – più precisamente, dato che parliamo dei sette peccati capitali – come un inferno senza redenzioni possibili. Esattamente l’idea del mondo che s’è fatta Somerset, incapace di sopportare il peso delle brutture viste nella sua lunga carriera, felice di contare i pochi giorni che lo separano dalla pensione. Una prospettiva sintetizzata dalla sua battuta che chiude il film: “Ernest Hemigway una volta ha scritto: ‘Il mondo è un bel posto, e vale la pena di lottare per esso’. Condivido la seconda parte”.
A ben guardare però, la stessa idea è condivisa dal serial killer (interpretato, anche se il nome dell’attore appare solo nei titoli di coda per non rovinare la sorpresa, da Kevin Spacey). Il quale, reagendo all’ignavia e all’indifferenza dilaganti (“vediamo un peccato capitale a ogni angolo di strada, in ogni casa, e lo tolleriamo”, dice disgustato), considera i suoi omicidi degli atti di giustizia, punizioni meritate inflitte a individui colpevoli di crimini che sono il riflesso e il risultato di quella realtà degradata in cui tutti viviamo.
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Le atmosfere e lo stile di Seven, conseguentemente, sono allineate a questa percezione del mondo integralmente disillusa, con al centro una città mortifera senza nome (una sorta di Gotham City maligna, allo stesso tempo qualunque città e nessuna in particolare), perennemente battuta dalla pioggia, sporca, sovraffollata, immersa in colori lividi, densi e scurissimi – il direttore della fotografia Darius Khondji utilizzò diversi processi chimici per accentuare quanto più possibile la pastosità del nero.
Basata su di una sceneggiatura di Andrew Kevin Walker – che disse di essersi fatto ispirare da un periodo personale vissuto a New York, la città di Taxi Driver, ovviamente –. la caccia al serial killer dei due detective agli antipodi per età, stile di vita, carattere lascia nello spettatore un’impressione di violenza quasi insostenibile. Eppure, Seven è un thriller che non mostra mai le torture. Somerset e Mills arrivano sempre sulla scena dei crimini quando questi sono già avvenuti. Ed è solo attraverso la forma e il linguaggio cinematografico che Fincher ci restituisce la rappresentazione pessimista di un mondo claustrofobico e terminale, ricostruito indirettamente attraverso le tracce che lo compongono.
Pensiamo alla sequenza del ritrovamento del corpo della prostituta (che corrisponde al peccato della lussuria). L’orrore resta fuori campo. Eppure la discesa nei bassifondi di un locale con luci al neon (tipiche degli scenari metropolitani da neo-noir), le urla, la concitazione di un montaggio serrato, i clangori di una colonna sonora con musica industrial, la confessione stravolta dell’uomo che il serial killer ha obbligato a commettere materialmente il delitto, tutti questi elementi sommati restituiscono una sensazione malsana che, nel suo alludere alla violenza senza riprenderla, la rende persino più insinuante e disturbante.
Seven, che sotto alcuni aspetti contiene elementi anche prevedibili – il contrasto programmatico di caratteri tra Mills e Somerset, i riferimenti alti letterari da Dante a Milton a Chaucer – ha però una costruzione narrativa capace di spiazzare le attese del pubblico. Quello che sembra un thriller ricco di suspense sulla caccia a un assassino (che guarda caso si chiama John Doe, il nome in inglese usato per indicare una persona anonima; praticamente tutti e nessuno) si trasforma improvvisamente in qualcosa di completamente diverso, in virtù di un colpo di scena (per i pochissimi che non hanno visto il film non riveliamo) che muta completamente l’equilibrio e la temperatura della vicenda.
Al punto che improvvisamente la domanda “chi è il colpevole?” non ha più importanza. Eppure il mistero, invece di diradarsi, s’infittisce, allontanando Seven dalle semplificazioni di tanti “film sui serial killer” che puntano su trame lambiccate ed effetti truculenti, trasformandolo in una corposa riflessione morale, in cui tanto il criminale che i due detective – e idealmente il pubblico che li sta guardando – non sono mai spettatori ma parti in causa posti di fronte alle conseguenze delle proprie scelte.
La lunga parte finale è il colpo d’ala della pellicola, che dopo un’ora e mezza plumbea incastrata dentro il buio di una metropoli asfissiante e labirintica, cambia completamente scenario, scegliendo l’assolato giorno di uno spazio desertico. Una soluzione che ricorda quella di Intrigo Internazionale di Alfred Hitchcock, la celebre sequenza in cui Cary Grant viene inseguito da un velivolo, in cui il maestro del brivido, contravvenendo a tutte le regole del thriller, secondo i quali gli incontri equivoci devono svolgersi di notte in luoghi appartati, invece crea la suspense collocandola in piena luce in un campo aperto.
Fincher ottiene un effetto simile. Perché nonostante la vastità, l’ariosità, la luminosità dell’ambientazione, l’inquietudine e la tensione invece di diminuire aumentano. I personaggi non sembrano mai più liberi o rasserenati ma, al contrario, sempre più immersi dentro quel mondo disperante che ci è stato descritto sin dalla prima inquadratura. E invece di sciogliere positivamente il dramma, il finale sgomenta e pone interrogativi allo spettatore. Che è, col senno di poi, la stessa cosa che il regista farà in un suo thriller successivo, stilisticamente diversissimo ma tematicamente affine, come Zodiac.