Il Cinema Ritrovato, benemerito progetto della Cineteca di Bologna che offre l’opportunità di vedere in sala i classici in versione restaurata, a partire dal 4 settembre ha in programmazione il capolavoro più singolare della filmografia di David Lynch, Una Storia Vera (A Straight Story, 1999), restaurato, con la supervisione del regista, a partire dal negativo originale in 4K da StudioCanal presso i laboratori Fotokem e L’Immagine Ritrovata.
La prima cosa che viene da pensare rivedendo il film è che, chissà, forse Steven Spielberg abbia deciso di scegliere Lynch per impersonare John Ford nel suo recente autobiografico The Fabelmans dopo aver visto Una Storia Vera. Ricordiamo infatti che, nella sua fulminea apparizione in The Fabelmans, l’unico, laconico consiglio che il vecchio maestro del western dà a un giovanissimo Spielberg è di stare attento a dove posizionare la linea dell’orizzonte nell’inquadratura: in alto o in basso, ma mai al centro.
E se c’è un’opera di Lynch in cui la linea dell’orizzonte costituisce quasi il personaggio principale, quella è Una Storia Vera. Che è probabilmente anche, tra i suoi film, quello che più ricorda un western. Non per la storia, certo: ma per l’afflato eminentemente visivo dell’opera, plasmata dalle forme del paesaggio struggente dell’America interna; e persino tematicamente, perché Una Storia Vera è (anche) un racconto virile cadenzato dal confronto a distanza tra due fratelli orgogliosi che non si parlano da dieci anni, posti di fronte al pudore con cui vivono l’intensità di un legame di sangue inscalfibile.
Una Storia Vera apparentemente ribalta tutti i princìpi del cinema di David Lynch. L’autore di Twin Peaks e Mulholland Drive, noto per la propensione a spezzare la linearità del racconto, abile nel far precipitare lo spettatore in viaggi surreali dentro gli incubi e le pulsioni nascoste negli anfratti dell’inconscio dell’immaginario americano; ebbene quell’autore, per una volta, depura sino all’essenziale il suo stile enigmatico, costruendo un viaggio tutto differente, semplice e dimesso come i suoi protagonisti, persone qualunque della provincia americana.
Il titolo originale di Una Storia Vera chiarisce la scelta sorprendente del regista: The Straight Story, cioè appunto una storia “diritta”, “coerente”, “sincera”, persino “convenzionale”. Ma Straight è anche, letteralmente, il protagonista della vicenda ambientata nel 1994 e ispirata a una vicenda realmente accaduta: Alvin Straight (Richard Farnsworth, caratterista di lungo corso nel ruolo della vita, che gli valse una nomination all’Oscar) è un agricoltore di 73 anni con problemi di mobilità e vista il quale, alla notizia dell’infarto del fratello Lyle (Harry Dean Stanton), posto di fronte all’eventualità di non vederlo mai più, capisce che è giunto, dopo anni di litigi e mutismo reciproco, il momento di riappacificarsi.
Il viaggio di 400 chilometri dall’Iowa al Wisconsin non sarebbe proibitivo: se non fosse che, non potendo guidare l’auto, Alvin lo intraprende sul più incongruo dei mezzi di trasporto, una vecchia, lentissima motofalciatrice. Così una trasferta di poche ore si trasforma in un’epica traversata di settimane. A nulla valgono le perplessità della figlia (Sissy Spacek) e degli amici della sonnacchiosa cittadina in cui vive il cocciuto Alvin. Di lì comincia l’avventura, e l’autentica scoperta, punteggiata di incontri casuali: una ragazza incinta scappata di casa, una automobilista che ha investito un cervo, un meccanico che gli ripara la cinghia di trasmissione, un prete in cui si imbatte in una sosta notturna nei pressi di un cimitero.
Nient’altro accade in Una Storia Vera, scritto da John Roach e dalla montatrice Mary Sweeney (per un breve periodo anche moglie di Lynch). Nessuno squarcio onirico, solo gli accadimenti minuti della vita di un individuo qualunque che ha mantenuto una forma di curiosità verso la realtà e le persone, con le quali stabilisce rapporti umani dagli accenti talvolta accorati – quando ricorda la Seconda Guerra Mondiale cui ha partecipato da soldato, nell’incontro col fratello, segnato da una trattenuta, indimenticabile emozione.
Eppure c’è molto altro in questo film che è il più sottilmente sperimentale della carriera di Lynch. È lui stesso a ribadirlo: “Il film è molto semplice e lineare, e questo aspetto ha sicuramente contribuito a rendere difficile la realizzazione, poiché vi sono pochi elementi con cui giocare. Per me si è trattato di un film sperimentale, che mi obbligava a giocare costantemente di finezza”. I limiti posti da una cornice così angusta mettono alla prova l’autore, costretto a scavare per trovare le ragioni e i meccanismi del suo cinema dentro una forma del racconto da lui mai frequentata: distesa, lenta quasi fino all’immobilità.
È qui l’originalità di un film attonito e bellissimo. Che depurato da ogni altro elemento, e privato della fretta imposta dall’azione di un intrigo tradizionale da cinema di genere, ha la possibilità di concentrarsi sugli elementi essenziali della narrazione: uomini, tempo e spazio (così ritorniamo all’importanza dell’orizzonte da cui siamo partiti). Nella lentezza pacata di ogni sequenza, Una Storia Vera spinge il pubblico a confrontarsi con gli elementi essenziali dell’arte cinematografica, che insistono sulla durata delle inquadrature, scenari e personaggi.
E finalmente, questo il miracolo del film, ci viene concesso il tempo per farlo. Sebbene forse tutto questo tempo non ci sia: perché, col passare dei giorni, Alvin corre il rischio di non ritrovare vivo il fratello infartuato. Eppure questo è un tempo che bisogna necessariamente prendersi. Vale per Alvin Straight, che può riattraversare la propria esistenza, riconsiderando la propria storia personale e reimmergendosi nei paesaggi sconfinati dell’America interna, autentica anima della nazione.
Lo stesso vale per lo spettatore: invitato a vivere sino in fondo un’impagabile esperienza cinematografica, che punta a concentrarsi sugli elementi costitutivi dell’arte della visione, cui la metodica impassibilità di una messinscena estenuata restituisce il senso di mistero enigmatico del cinema di Lynch. Il quale stavolta non ha nemmeno bisogno, come in Eraserhead o Velluto Blu, di mostrare esplicitamente la dimensione straniante che si cela dietro la vernice rassicurante della superficie delle cose per farci capire quanto sfuggente, inquietante, affascinante sia la realtà.
In questo senso Una Storia Vera è assolutamente lynchiano: però invece di immagini virtuosistiche e involute fratture narrativeci usa materiali dimessi e quotidiani che, nel rallentamento strutturale del racconto, da spettatori (esattamente come Alvin), siamo sollecitati a guardare molto più intensamente del solito. Certe inquadrature insistite – le stelle che tornano all’inizio e alla fine, i campi coltivati ripresi dall’alto – ribaltano una prospettiva apparentemente ordinaria nel suo opposto, in un’esperienza che tende all’astrazione, radicale e visionaria come in altri film di Lynch.
Le inquadrature degli spazi sterminati attraversati da Alvin non si limitano a rimarcare liricamente la bellezza del creato. C’è un’attitudine oggettivante nell’approccio dell’autore, che sottolinea anche l’impersonalità dello sguardo della macchina da presa, che registra spassionatamente la realtà. La quale, grazie unicamente alla lentezza percettiva e senza ricorrere a espedienti vistosi, è mostrata in tutta la sua complessità. Insieme consueta e surreale, concreta e incorporea, riconoscibile ed estranea, commovente e distaccata.
Lo sguardo stupefatto di David Lynch, tanto disorientato quanto ammirato, trova in Una Storia Vera un nuovo modo di manifestarsi. Così ci aiuta a capire che lo straordinario, l’inatteso, l’incomprensibile non si celano dietro uno specchio da attraversare, ma sono esattamente qui, davanti a noi. Il mistero più fitto, che incanta e sbigottisce, è la realtà stessa. Basta avere occhi e tempo per guardarla. Non dimenticando mai il punto giusto in cui posizionare l’orizzonte.