Grazie Ragazzi, Riccardo Milani racconta la forza liberatoria del teatro

Dei detenuti seguono un laboratorio tenuto da un attore fallito, per mettere in scena “Aspettando Godot”. Tra commedia e impegno, un racconto ostinatamente ottimista, che riscatta le imperfezioni con la sincerità. Ottimo Antonio Albanese

Grazie Ragazzi

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Nella carriera di Riccardo Milani Grazie Ragazzi è il terzo remake da un originale francese, dopo Mamma o Papà (2017) e Corro da Te (2022), sull’onda di una strategia imitativa che, almeno dallo straordinario successo di Benvenuti al Sud di Luca Miniero (tratto dal transalpino Giù al Nord), è diventato comune per il nostro cinema, presumendo, per “parentela” culturale e sociale, che sia facile trapiantare quelle storie in un contesto italiano (ereditandone il box office).

Nel caso di Grazie Ragazzi (sceneggiato dal regista insieme a Michele Astori) il processo è persino più articolato e la rete più ampia. Perché alle spalle della pellicola francese Un Triomphe di Emmanuel Corcoul (in italiano Un Anno con Godot), c’è la storia vera di un regista svedese, Jan Jönson, che negli anni Ottanta nel suo paese ebbe l’opportunità di realizzare un laboratorio teatrale con dei detenuti, scegliendo di mettere in scena un testo complesso eppure così congruente, Aspettando Godot di Samuel Beckett – l’idea frustrante e insensata dell’attesa indefinita, un concetto che per un carcerato è pane quotidiano –, ottenendo un insperato riscontro, al punto che lo stesso Beckett volle incontrare Jönson.

Così Riccardo Milani, che è uno dei più attenti “facitori” – termine che gli piace molto, preferendolo al più impegnativo e astratto “autore” – di commedie sospese tra leggerezza e sguardo sociale, forte del credito anche commerciale della storia, ha potuto, con la produzione di Palomar e Wildside, tradurre nel contesto italiano questa vicenda dal messaggio tonificante.

Contesto il nostro che poi in realtà contiene uno straordinario esempio autoctono di teatro nelle carceri, ed è ovviamente la storia trentennale della Compagnia della Fortezza nel penitenziario di Volterra, diretta da Armando Punzo. E in qualche modo Grazie Ragazzi mantiene memoria di questa esperienza, grazie alla presenza tra gli interpreti di Nicola Rignanese, nella parte di un’indisponente guardia di custodia, che con la Fortezza ha lavorato, prodigo di consigli utili alla verosimiglianza di un racconto la cui esemplarità corre sempre il rischio di edulcorare la durezza del tema.

Antonio Albanese, alla quarta collaborazione con Milani – ricordiamo soprattutto il bell’exploit di Come un Gatto in Tangenziale – è il mattatore discreto di Grazie Ragazzi. Il suo Antonio è un attore deluso e fallito – sopravvive doppiando film porno, idea stiracchiata buona per cominciare il film con una gag di grana grossa che insomma… –, istigato dal vecchio sodale e più fortunato Michele (Fabrizio Bentivoglio) a tenere un laboratorio in carcere. Poca cosa, sei ore di lavoro con cinque detenuti che alla fine mettono in scena una breve favola per gli altri ospiti del penitenziario.

In Antonio però scatta qualcosa: gli viene l’idea del Godot, che non a caso è stata la sua prima esperienza professionale. Così, nella speranza forse di riannodare il sé che era al sé che è diventato e di ritrovare il senso del suo mestiere, propone alla direttrice del carcere Laura (Sonia Bergamasco) un vero laboratorio di due mesi, e una messinscena in un teatro vero. Le cose vanno molto oltre le aspettative, anche e soprattutto grazie alla dedizione al lavoro, forse persino alla vocazione che scoprono i detenuti, dal rispettato e temuto Diego (Vinicio Marchioni) al timido Aziz (Giacomo Ferrara), dallo stralunato Damiano (Andrea Lattanzi) al terragno Mignolo (Giorgio Montanini).

È un feel good movie Grazie Ragazzi, con la sua idea semplice e coinvolgente dell’arte e della bellezza che redimono, offrendo un’opportunità di riscatto ai detenuti, ma anche a quel detenuto ostaggio di sé stesso che è diventato Antonio. Riccardo Milani non arretra di fronte all’emozione (e alla commozione) delle scene madri: quando la sera della prima sta tutto per franare e l’imperturbabile Diego deve scoprire la forza che viene da una imprevista fragilità; o quando Laura, superando certe cautele imposte più dal ruolo che dalla sua indole, deve convincere il magistrato a un passo oltre le consuetudini per il bene dei detenuti.

Milani però cerca sempre di riequilibrare la dolcezza (e il versante comico) con un’impostazione passabilmente seria. Ed è lì il meglio del film: non tanto nella rappresentazione dello spazio carcerario – che resta timida e sfumata – quanto nei caratteri e nelle pratiche del laboratorio di recitazione. Albanese delinea un Antonio non esattamente simpatico, ruvido ed esigente con i suoi “attori”, che considera sempre tali sin dal primo momento – trattandoli come persone, quindi –, con cui entra in quella relazione autentica che la zona franca del teatro consente di istituire immediatamente. Uso del diaframma, respiro, scioglilingua, espressione corporea: la ritualità dell’esercizio dell’attore, dei meccanismi dell’interpretazione – “liberatori” in ogni senso possibile, fisico e psichico – è uno dei punti su cui Grazie Ragazzi è più convincente.

Gli “strumenti” dell’attore spiegati da Albanese ai suoi detenuti-attori

Certo, il film poi contiene diverse cose inessenziali, tirato per le lunghe, con una prima parte compatta e uno sfilacciato secondo tempo che racconta la tournée, che accumula gag e situazioni picaresche. Manca all’impostazione di Milani un linguaggio, uno sguardo capace di tradurre la storia in una visione. Diverse sequenze iniziano tutte allo stesso modo, un’inquadratura dall’alto e dall’esterno del carcere, che nella sua ripetitività banalizza l’intensità della vicenda, lasciando paradossalmente lo spettatore fuori da quelle mura di cui si coglie solo indirettamente il respiro. La camera è accanto ai bendisposti detenuti attori, ma sempre un passo indietro rispetto alla verità di un luogo che, nonostante gli sforzi, resta quasi messo tra parentesi.

Resta e conquista, però, il senso di trasparente onestà di un’operazione che nel suo strenuo entusiasmo pedagogico contiene un nocciolo quasi utopico – sebbene il finale, corretto, cerchi una via meno conciliante. E nella sua interpretazione Albanese, vero centro motore ed emotivo del film, trova una misura giusta per un cinema che aspira a coniugare autenticità, divertimento e commozione, raccontando col suo carattere ombroso ma non rinunciatario l’ottimismo della volontà e la consapevolezza dei limiti tanto della realtà che dei sogni.

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