Irraggiungibile Zalone a parte, Come un gatto in tangenziale è il migliore incasso del cinema italiano recente, capace di superare la soglia ormai proibitiva dei dieci milioni di euro. E non è un caso che a essere baciata dal successo sia stata la migliore commedia nostrana recente, a conferma del fatto che quando arriva in sala un film veramente intelligente e divertente il pubblico se ne accorge, il passaparola parte e il botteghino premia lo sforzo.
Come un gatto in tangenziale, stasera su Canale 5 in prima tv alle 21.20, segna anche il punto più alto della collaborazione tra Riccardo Milani e la moglie Paola Cortellesi, qui anche cosceneggiatrice. Insieme Milani e Cortellesi avevano già parlato di periferie nel precedente Scusate se esisto!, in cui l’attrice impersonava un’architetta di provincia che realizza il progetto di riqualificazione del Corviale. E se quel film s’incagliava in una commedia degli equivoci già vista, proprio le parti quasi documentarie sul Corviale erano le più intriganti, capaci di raccontare una Roma non da grande bellezza e però viva di vita pulsante.
Come un gatto in tangenziale recupera quell’ispirazione e la sublima in una chiave felice di commedia degli opposti, giocata su due caratteri un po’ semplificati, ma sociologicamente riconoscibili e per questo capaci di raccontare un pezzo di Italia e di far scattare l’identificazione dello spettatore. I protagonisti sono Monica e Giovanni. Monica, ovviamente la Cortellesi, è una madre che vive nella periferia romana di Bastogi, fiera e determinata a far crescere bene il figlio adolescente, sebbene l’ambiente intorno a lei e le difficoltà – marito in galera, lavoro saltuario in una casa di riposo – congiurino contro di lei. Giovanni (Antonio Albanese), attico al centro, prestigioso lavoro intellettuale in un think tank, ha la vocazione all’integrazione, anzi alla “contaminazione”, come dice lui, tra i quartieri bene e quelle periferie che conosce solo dai libri.
Infatti quando la figlia adolescente lo informa del suo amorazzo col figlio di Monica, lui va subito in crisi. Così comincia il lento apprendistato di Giovanni e Monica, costretti a frequentarsi per interposti figli, entrambi ben determinati a stroncare sul nascere la relazione per reciproca diffidenza.
La dinamica degli antipodi è la stessa di Ferie d’agosto di Paolo Virzì, senza però le esplicite connotazioni politiche. Milani si muove su una linea di commedia pura, esasperando quasi didascalicamente le differenze tra i mondi dei protagonisti, come nella doppia gita al mare, la prima sulla spiaggia caciarona di Coccia di Morto, la seconda nella rarefatta Capalbio, proverbiale terra di ripopolamento della fantomatica tribù dei radical chic.
Come un gatto in tangenziale non raggiunge i toni sulfurei della miglior commedia all’italiana, ma la scrittura è brillante, con una comicità che evita la scappatoia della deformazione grottesca o della risata grossolana. Ci sono trovate irresistibili: la coppia di sorellastre Pamela e Sue Ellen (“Papà le ha chiamate così perché stava in fissa con Dallas”, dice Monica), che si dicono affette da shopping compulsivo, il che vuol dire che sono due taccheggiatrici; la ex moglie di Giovanni, una Sonia Bergamasco sempre più a suo agio con la presa in giro dei birignao degli altoborghesi, che è scappata in Francia, stanca di un paese irredimibile come l’Italia. Redimerlo invece è proprio il compito dell’esperto di politiche pubbliche Giovanni, che però potrà condurre in porto il suo disegno solo se la trasformazione riuscirà a farla prima dentro sé stesso, coniugando centro e periferia nel suo quotidiano.
Come un gatto in tangenziale coglie anche l’importanza dei dettagli ben scritti: il campanello di casa con le canzoni di Renato Zero, i brevi dialoghi col verace carrozziere romano che dagli incidenti d’auto capisce in quale ginepraio si sia infilato Giovanni, fino al cameo di Claudio Amendola come marito irresponsabile di Monica. La quale è il vero cuore del film: è ammirevole l’immedesimazione della Cortellesi in questa madre coraggio senza lamentele e melodrammi. Basta vedere il suo monologo davanti a un esterrefatto Albanese su quella polveriera multietnica che è la Roma di oggi per capire quanto sia ormai maturo il talento dell’attrice e come sia possibile costruire un racconto a sfondo sociale senza ricorrere a toni gridati o emotivamente ricattatori. Tutto questo rende più credibile quel tanto di favolistico che c’è nel finale di un film sapientemente in bilico tra commedia sentimentale e di costume, a cui non si può non voler bene.