In termini industriali, Avatar – La Via dell’Acqua è al centro della sfida per la sopravvivenza della sala, il film che – stante il successo del precedente Avatar, il lungometraggio col più alto incasso della storia del cinema, quasi 3 miliardi di dollari – è atteso a risultati strabilianti, che dovrebbero aiutarci a capire se esiste ancora un futuro per il grande schermo. Il primo giorno italiano parla di un incasso buono ma non stratosferico, quasi 1,5 milioni di euro, mentre gli analisti Usa si attendono un primo weekend al di sopra dei 150 milioni di dollari.
Staremo a vedere. Nell’attesa da vedere c’è il film, in linea col titanismo visionario del suo autore James Cameron, che ancora una volta cerca di spostare un po’ più in là il confine di ciò che il cinema è in grado di plasmare. E lo fa tornando all’elemento che maggiormente lo affascina, l’acqua, che già a partire da The Abyss (1989), attraverso effetti speciali sviluppati ulteriormente in Terminator 2 (1991), gli aveva permesso di condurre una riflessione affascinante sulla smaterializzazione, anzi la liquefazione di un’identità che si faceva sorprendentemente fluida e malleabile. Intercettando e per certi versi anticipando attraverso l’immaginario temi sempre più centrali nel dibattito contemporaneo su genere e identità.
Restando al suo prediletto elemento acquatico, Titanic (1997) poi era stata un’ambiziosa ricapitolazione della storia della settima arte, un Via col Vento di fine secolo e di fine cinema, messinscena terminale che, oltre a chiudere il Novecento, chiudeva con un modello di produzione dei film ormai anacronistico – il destino molto simbolico del transatlantico, ricreato in studio in scala praticamente reale, non poteva essere che quello di affondare.
Dopo quella catastrofe però, sempre Cameron attraverso Avatar ha indicato senza nostalgie passatiste la nuova via da seguire, il cui segreto è nella digitalizzazione del cinema, puntando non all’artificio e alla simulazione – com’è pure in tanti film in cui gli effetti speciali dànno all’immagine una consistenza plastificata, meccanica, insapore – ma alla costruzione di un nuovo realismo, in cui la narrazione si salda a un immaginario visivo di resa praticamente fotografica, sebbene quasi integralmente ricreata al computer.
Infatti, dopo il mondo delle foreste del primo episodio, Avatar – La Via dell’Acqua s’inabissa in un ambiente acquatico che, paradossalmente, il regista filma quasi si trattasse di un documentario digitalizzato, che lo spettatore guarda affascinato come stesse entrando in un universo realmente esistente. Ed è questa la qualità specifica di Cameron, il quale non è tanto un narratore di storie – che, incardinate sempre sull’uso dei generi popolari, restano abbastanza elementari –, ma un visionario costruttore di mondi, che non si possono guardare senza un certo sbalordimento.
Il cambio di scena è obbligato in Avatar – La Via dell’Acqua dalla minaccia cui è sottoposto Jack Sully (Sam Worthington), che nel frattempo è diventato il capotribù dei Na’vi del pianeta Pandora, creando una famiglia inclusiva insieme all’amata indigena Neytiri (Zoe Saldana), che comprende tre figli loro – l’assennato Neteyam, il ribelle Lo’ak e la piccola Tuk – e due adottati, Kiri, figlia dell’avatar della scienziata Augustine Grace (Sigourney Weaver), e Spider, figlio del defunto colonnello Quaritch (Stephen Lang).
Ma è proprio Quaritch a riapparire, in una versione Avatar con il backup della sua coscienza innestato su di un corpo Na’vi, e quindi furiosamente assetato di vendetta nei confronti di Jack, che per salvare la sua famiglia chiede rifugio presso i Metkayina, una pacifica e fiera popolazione che abita in un arcipelago bello come l’Eden.
E qui Cameron, manifestando ancora una volta la sua visione ecologista, delinea una realtà in cui ogni elemento, flora e fauna, viventi e trapassati respirano all’unisono, in una connessione miracolosa che dà vita a un universo di spiritualismo panteista. “La via dell’acqua non ha inizio e non ha fine, il mare è intorno a te e dentro di te, dà e prende, l’acqua connette tutte le cose”. Per un tratto lunghissimo Avatar – La Via dell’Acqua mette quasi interamente da parte le sue preoccupazioni narrative, lasciandosi avvolgere estaticamente dalla dimensione equorea del mondo dei Metkayina, con uno sguardo non dissimile da quello del Terrence Malick della prima parte de La Sottile Linea Rossa, in cui un militare disertore dimenticava la guerra appartandosi in un’isoletta sperduta del Pacifico, vivendo in una dimensione panica, acquietata e in sintonia con la natura.
Solo che quella era ancora una rappresentazione, insieme di esattezza documentaria e di potenza trascendentale, di un mondo reale. Mentre James Cameron ci trasporta in un universo fittizio e immaginifico che assomiglia a quegli spazi digitali che sempre più potrebbero diventare lo standard delle esperienze visuali e sensoriali immersive del prossimo futuro. Avatar – La Via dell’Acqua delinea perciò un’idea di cinema che guarda, com’è ormai tipico per il suo autore, ai bordi e oltre i confini della settima arte.
Il nuovo si porta dietro anche la ricapitolazione di sguardi e visioni precedenti. Che sono appunto quelle di Malick, dello Spielberg di Jurassic Park (con creature che assomigliano a dinosauri) e de Lo Squalo. Ma anche quelle del suo cinema: tutta l’ultima parte pare una traduzione in digitale di Titanic, perché il suo cinema grandioso e ottimisticamente volto a nuove fondazioni è sempre attratto dalla tentazione apocalittica della distruzione terminale.
Poi Avatar – La Via dell’Acqua rientra nei binari di un racconto di genere che guarda a situazioni tipiche da film bellico e talvolta anche western, con lo scontro inevitabile tra i buoni e i cattivi in cui emergono le peculiarità di tutti i protagonisti. E se c’è una certa meccanicità tipica delle sceneggiature di Cameron (che qui si fa aiutare per lo script da Rick Jaffa e Amanda Silver), allo stesso tempo alcuni episodi – come nel caso della furia cieca, disturbante eppure comprensibile, di Neytiri – rivelano un approccio ai caratteri e alla materia narrativa che non cerca mai, come accade quasi sempre ai film supereroistici, la scorciatoia dell’ironia o dei toni edulcorati. Per Cameron il cinema è un’arte che va ancora presa sul serio, qualunque cosa essa stia diventando o diventerà.