La Figlia Oscura, il mistero della maternità nel film tratto dal romanzo di Elena Ferrante

Per l’esordio alla regia Maggie Gyllenhaal sceglie un libro dell'autrice italiana. L’incontro con una famiglia di villeggianti spinge una docente universitaria a ripensare alle sue scelte giovanili. Con Olivia Colman, Dakota Johnson e Jessie Buckley

La Figlia Oscura

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In concorso alla Mostra di Venezia nel settembre del 2021, La Figlia Oscura (The Lost Daughter, 2021), film d’esordio alla regia dell’attrice Maggie Gyllenhaal, giunge finalmente al cinema dal 7 aprile, distribuito da Bim. Con un palmarès importante, coronato da tre nomination all’Oscar: per la protagonista Olivia Colman, la non protagonista Jessie Buckley e la sceneggiatura non originale alla stessa Gyllenhaal, tratta dal romanzo omonimo di Elena Ferrante del 2006, precedente al ciclo dell’Amica Geniale.

Il film muta origine dei protagonisti e luogo dell’azione, mantenendone la sostanza. Nel libro la protagonista Leda è una docente universitaria di letteratura inglese di 48 anni nata a Napoli, con due figlie ventenni, che si concede una vacanza il Puglia, nel film diventa una professoressa americana di letteratura italiana – in originale ogni tanto parla nella nostra lingua – che si reca in un’isola greca. Le sue giornate si svolgono in maniera tranquilla e solitaria: mare, letture – sembra star lavorando a un saggio sulla Commedia di Dante –, qualche incontro, tra un giovane bagnino affabile e il proprietario che le ha affittato l’appartamento, un americano d’una certa età (Ed Harris) che prova qualche timido approccio – le figure maschili sono destinate. rimanere, sbozzate, sullo sfondo.

L’arrivo sulla spiaggia di una famiglia numerosa e chiassosa di americani d’origine greca (nel libro napoletani) attira la sua attenzione, e anche il suo risentimento, per la rottura della pace meridiana. Leda intuisce che c’è qualcosa di sospetto in quel gruppo, con un capofamiglia dall’aria minacciosa e qualcosa di poco pulito alle spalle. Soprattutto c’è sua moglie, Nina (Dakota Johnson), bella, inquieta giovane madre che pare temere il marito. Quando la sua figlioletta si perde sulla spiaggia è proprio Leda a ritrovarla, e questo crea inaspettatamente un legame con Nina. Che diventa emotivamente assai forte per Leda anche per un’altra ragione: la donna ritrova anche la bambola della bambina. Ma invece di ridargliela, se ne appropria.

Da quel momento in poi scatta una forma di identificazione, che la riporta alle memorie di vent’anni prima, ai tempi in cui la giovane Leda (Jessie Buckley) era un’aspirante accademica ingabbiata in un matrimonio con due bambine che le rendevano difficile coronare i sogni di carriera ed emancipazione. Talmente difficile da spingerla a una decisione non convenzionale che, sebbene abbia poi trovato un equilibrio professionale soddisfacente, è ancora capace di causarle sofferenza. E quella bambola adesso inspiegabilmente tra le sue mani, maltrattata, buttata nella spazzatura, poi amorevolmente recuperata, diventa il catalizzatore di quel grumo di emozioni sempre presenti.

La Figlia Oscura è una riflessione sull’essere donna, sul bisogno di emancipazione da regole sociali non scritte ma costrittive, una storia che ruota intorno al tema della maternità e alla possibilità, come fa Leda pagandone lo scotto, di metterla in discussione. È un racconto psicologico calibrato sulle sfumature, per il quale la Gyllenhall cerca uno stile intimo e intimista che resta incollato ai personaggi, per radiografarne ogni impercettibile sussulto. Nel passaggio dalla pagina scritta al film – la Ferrante ha dichiarato di aver apprezzato la libertà della trasposizione – probabilmente qualcosa si perde, perché le comuni origini napoletane – di Leda e della famiglia di villeggianti sicuramente malavitosi – davano al racconto un senso di urgenza più forte, per quell’appartenenza a una cultura sentita come un destino ancestrale cui è impossibile sfuggire – per cui le scelte di Leda nel romanzo assumevano ancor più il senso di uno strappo violento, socialmente inaccettabile, incomprensibile.

Manca anche nel film lo scandaglio più netto di un tema che è del libro, ossia il bisogno della protagonista di sottrarsi al modello di maternità asfissiante della madre. In un flashback la giovane Leda si ribella all’idea di lasciare per un periodo le sue figlie alla mamma perché, dice, non ha nemmeno finito la scuola – un’osservazione che, pronunciata da una giovane accademica, ha un sapore banalmente classista, mentre nella dinamica del romanzo assume un significato più vasto legato ai diversi modelli di maternità.

La cornice culturale scelta dalla Gyllenhaal per la riduzione de La Figlia Oscura è come se depotenziasse, disincarnasse la sostanza della storia, cui cerca di sopperire col dettaglio della presenza corposa e simbolica di quella bambola a tratti inquietante come quelle di certi vecchi film dell’orrore. Lasciano il segno certe affermazioni della protagonista, che non cerca una giustificazione per il gesto del furto della bambola, che ha causato grande angoscia alla bimba di Nina: “Io sono un madre snaturata”, dice semplicemente. E anche rispetto al rapporto con le sue figlie, Leda afferma, con una franchezza in cui si mescolano freddezza, consapevolezza e rimorso, che tutte le sue scelte le ha fatte sempre pensando prima a sé stessa che a loro. La regia in questo, opportunamente, lascia tali affermazioni nella loro disarmante sincerità, mantenendo il senso di ambiguità di una vita, quella di Leda, che sarebbe troppo facile, moralisticamente, giudicare.

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