Spencer, la favola della principessa triste diventa un film dell’orrore

Pablo Larraín firma un film-labirinto, che parla del potere e della sua rappresentazione. La Lady D di Kristen Stewart è un’adolescente ribelle in un mondo scandito da regole inumane. Dal 24 marzo in sala

Spencer

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“Una favola da una vera tragedia”, recita la didascalia in apertura di Spencer, richiamando archetipi narrativi che subito denunciano la voluta distanza dalla cronaca o, peggio ancora, dagli scandali e dai pettegolezzi. E certo, dopo le elusive biografie di Neruda e Jackie, nessuno s’attendeva dal regista cileno Pablo Larraín un trattamento tradizionale della storia di una delle più iconiche figure di fine secolo, Lady Diana.

Il film si ritaglia una porzione straordinariamente piccola di vita di Diana (Kristen Stewart) da cui trarre conclusioni straordinariamente vaste e definitive, ossia i tre giorni del Natale del 1991 che, da tradizione, la famiglia reale trascorre nella tenuta invernale di Sandringham, nella contea di Norfolk. Ed è subito chiaro che il clima festoso per la regina e i suoi congiunti ha un che di obbligatorio e marziale, cadenzato da regole cui è impossibile sottrarsi. I militari consegnano le grandi casse con il cibo e lasciano il posto ai cuochi, che marciano come una truppa gridando il proprio “sissignore” allo chef, mentre nelle cucine c’è un cartello che recita “Parlate piano, loro vi sentono”, come si fosse in guerra.

All’arrivo tutti, regina compresa, devono sottoporsi al rituale, ritenuto giocoso, della pesatura, così da poter, ripesandosi alla fine della festa, assicurarsi che ogni ospite sia debitamente ingrassato, così da dimostrare d’essersi effettivamente divertito. E i momenti della giornata sono scanditi da un precisissimo dress code, che contempla continui cambi d’abito studiati per ogni circostanza. Insomma, Spencer mette in scena un universo perfettamente irrigidito, in cui comportamenti, portamento, tono di voce, abitudini alimentari devono uniformarsi a un modello cogente – anche le tende vanno sempre tenute chiuse, per timore degli onnipresenti paparazzi –, in un regime di severo controllo dei corpi al quale consegue, idealmente, quello della psiche e dei pensieri.

In questo contesto ossessivamente ordinato, riflesso nella cura dei movimenti ortogonali dei carrelli della macchina da presa lungo le lussuose stanze, i corridoi, gli impeccabili giardini della tenuta simili a un labirinto, Diana recita sin da subito il ruolo della scheggia impazzita. Giunge da sola in auto, si ferma a una tavola calda chiedendo indicazioni, perché non ha la più pallida idea di dove sia.

È un corpo (appunto) totalmente estraneo, sebbene quella sia la regione della sua infanzia, dove viveva con la famiglia Spencer. “Come ho potuto perdermi in un posto dove una volta giocavo?”, si chiede, come si stesse consumando un preoccupante sdoppiamento o scollamento di personalità. Infatti Lady D precipita in una sorta di confusione tra realtà e fantasia, parlando con uno spaventapasseri del quale prende il soprabito, o identificandosi con Anna Bolena – che vede nei corridoi della tenuta –, la moglie di Enrico VIII decapitata per adulterio.

Quello di Spencer è un mondo allucinatorio, uno spazio concentrazionario in cui, a parte Diana e i suoi due bambini William ed Harry (Jack Nielen e Freddie Spry), gli altri membri della famiglia reale, regina (Stella Gonet) e marito Carlo (Jack Farthing) compresi, sembrano lontani ectoplasmi che si manifestano solo nei momenti cerimoniali comandati, architetti di un complotto ai danni di lei, sotto l’occhio vigile di un ex militare (Timothy Spall) posto lì, sembrerebbe, esattamente per condurre a buon fine il disegno previsto.

Scritto da Steven Knight (Locke, Peaky Blinders), Spencer ha un’atmosfera asfissiante alla Rosemary’s Baby, in cui la (supposta) favola è sempre sul punto di cedere a un orrore manifesto, sottolineato dalla colonna sonora cupa e stridente di Jonny Greenwood (il chitarrista dei Radiohead), che dispone una partitura afflittiva, algida. Ed è fredda e senz’anima la magione, in cui Diana lamenta la mancanza di riscaldamento per sé e i figli, gli unici alla ricerca di calore in un universo in cui tutti gli altri, né vivi né morti, paiono perfettamente adattati. Forse anche perché, come Carlo spiega alla moglie, hanno compreso da sempre le norme fondamentali legate allo status regale: “Devi essere in grado di far fare al tuo corpo cose che odi”, le dice, aggiungendo che loro, ossia il popolo, “non vogliono che siamo persone”.

Spencer ruota intorno al mistero del potere e della sua rappresentazione, e di come una posizione di comando, invece di dare libertà a chi lo detiene, obblighi a regole severissime, come se non si disponesse più realmente di sé stessi, ridotti a recitare quella parte vuota di simbolo pretesa dalla comunità e – dal Novecento in poi, l’epoca della regina Elisabetta e di Diana – dagli onnipresenti mass media.

Però se in Jackie la Jacqueline Kennedy di Natalie Portman aveva precisa contezza di queste leggi non scritte, facendo di tutto per perpetuarle anche dopo l’assassinio del consorte presidente, Diana invece è una specie di adolescente che cerca di sottrarsi alla norma. E il film, che sostanzialmente assume il suo punto di vista, riproduce l’esaltazione un po’ immatura dei suoi sogni di semplicità, che la spingono a vedere tutti come nemici che ordiscono un complotto – ma l’unica persona di cui si fida, la sua damigella Maggie (Sally Hawkins) le ricorda che “Non sono cattivi” – e a cercare vie di fuga concrete o immaginarie, sovrapponendo la sua immagine a quella di Anna Bolena, o reimmergendosi nel passato tramite una visita alla casa di famiglia in rovina.

Il film di Pablo Larraín possiede una smagliante precisione formale, calibratissimo nei movimenti di macchina, nella disposizione di un rapporto sempre preciso tra figura in primo piano e sfondo. Spencer deve molto al cinema di Kubrick, i tableaux vivants alla Barry Lyndon, l’atmosfera enigmatica e paranoica alla Shining (il personaggio di Timothy Spall sembra preso di peso da quel film), certi momenti alla Eyes Wide Shut (il modo in cui Diana-Stewart seminuda si guarda allo specchio, esattamente come la Kidman).

Semmai qualche perplessità è legata proprio al tipico massimalismo autoriale del cinema del regista cileno, in cui ogni dettaglio, inquadratura, battuta di dialogo è sempre esageratamente simbolico, come se non si nutrisse troppa fiducia nell’intelligenza dello spettatore, cui si offrono allegorie didascaliche che non lascino dubbi sul loro significato. Ed ecco allora lo smarrimento di Diana sin dalla prima inquadratura, Anna Bolena e lo spaventapasseri, le perle e i fantasmi, i fagiani e le tende ricucite, tutti elementi ricombinati dentro un teorema quasi schematico.

Un cinema cerebrale quello di Larraín, che si appassiona alla messinscena del suo dispositivo, che tiene insieme l’enigma e il labirinto, la fiaba e la tragedia, la figura del doppio e il pensoso saggio biopolitico. In compenso Spencer ha la capacità di sottrarsi al film biografico e all’obbligo della riproduzione letterale e piatta della realtà. La Diana dolente di Kristen Stewart, che ha ottenuto la candidatura agli Oscar 2022, non è per nulla mimetica, e però sembra cogliere con autenticità certe sue (possibili) fragilità. Ed è come una vistosa firma d’autore (tutto è sempre piuttosto vistoso nel suo cinema di gran classe) il colpo di scena stilistico del finale che, scartando spudoratamente dal tono generale del film, è sbarazzino come quello di una commedia americana giovanilistica anni Ottanta (osservate il dettaglio del vestito che compare al termine di una carrellata, una soluzione presa di peso dalla grammatica di quel tipo di film). Può sembrare una conclusione stonata e incongrua. Eppure riesce, nella sua reinvenzione della realtà, a dirci sulla persona e il personaggio Diana qualcosa a cui da spettatori (e sudditi) non avevamo pensato.

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