“Il mondo è pieno di belle voci che non hanno niente da dire. Tu hai qualcosa da dire?”. Questo chiede l’insegnante di musica Bernardo Villalobos (Eugenio Derbez: trattandosi di un personaggio latino la sceneggiatrice e regista Sian Heder pensa bene di affibbiargli il cognome di un grande compositore sudamericano) all’allieva Ruby Rossi (Emilia Jones), che s’è iscritta al corso del coro apparentemente solo perché ci va il ragazzo dei suoi sogni. E invece è la musica il suo più grande amore. Solo che non ha ancora trovato il coraggio di ammetterlo a sé stessa.
È curioso, si tratta della stessa domanda che il maestro Capuano rivolge a Fabietto Schisa in È Stata La Mano di Dio di Paolo Sorrentino – “’A tiene quaccosa ’a dicere?” –, certo usando uno stile decisamente più brusco di quello garbato del professor Villalobos de I Segni Del Cuore – Coda. Il tema però è lo stesso. Ed è un tema universale, legato alla difficoltà, che comincia a manifestarsi nell’adolescenza, di trovare la propria strada nel mondo, soprattutto quando le condizioni di partenza sono svantaggiate, dovendo maneggiare un grande dolore di partenza.
Per Fabietto è stata la perdita di entrambi i genitori in un assurdo incidente casalingo. Ruby è decisamente più fortunata, ha sia il padre, il pescatore Frank (Troy Kotsur), che la madre Jackie (Marlee Matlin), e c’è pure un fratello maggiore (Daniel Durant). Però sono tutti e tre sordi. E lei costituisce da sempre il principale tramite tra loro e la realtà esterna, una condizione che ha reso la sua vita più difficile di quella di qualsiasi altro adolescente nei paraggi.
Sta tutto qui, in questa capacità di parlare con tono contagiosamente ottimista di argomenti che ci accomunano tutti – cosa c’è di più universale e condiviso del dolore e del senso di inadeguatezza? – che sta il segreto che ha reso I Segni Del Cuore il vincitore della statuetta del miglior film agli Oscar 2022, battendo un’opera sulla carta più blasonata, Il Potere Del Cane di Jane Campion. Il quale è un western stilisticamente raffinato, però algido e scostante. Mentre Sian Heder punta interamente su di una ricetta da feel-good movie, nel quale la fanno da padrone il calore umano, i sentimenti, la forza inscalfibile dei legami familiari.
Può lasciare un po’ perplessi che la Heder sia riuscita addirittura a vincere l’Oscar per la sceneggiatura non originale. Che, seguendo piuttosto fedelmente il film francese La Famiglia Bélier da cui è tratto questo remake americano, è un concentrato di luoghi comuni (sia detto senza volerlo sminuire) abbastanza canonici. Da un lato abbiamo le insicurezze dell’adolescenza – ovviamente Ruby è discriminata e presa in giro a scuola per la sua famiglia “strana” –, dall’altro la questione della sordità.
Che però, questo è uno dei punti di forza della storia, sebbene preso di peso dall’originale francese, è vissuta dai protagonisti senza complessi di sorta. Anzi, la sceneggiatura non manca di sottolineare con divertimento quanto Frank e Jackie siano una coppia ancora appassionata e sessualmente molto attiva. E sono sempre loro, viste le nuove tasse e sanzioni poste dal consiglio locale per continuare l’attività di pesca, a trovare il coraggio di mettersi in proprio, fondando un’azienda e spingendo gli altri pescatori a seguirli.
Insomma, I Segni Del Cuore è un film sull’eterna sfida del cercare e trovare una propria voce. Vale per l’adolescente gravata di troppe responsabilità Ruby. Vale per degli adulti che, letteralmente, una voce non ce l’hanno, senza che però ciò venga vissuto come un handicap che li faccia sentire meno capaci degli altri.
La sordità funziona anche come una metafora trasparente della difficoltà che qualunque ragazzo vive nel confronto con dei genitori che non riescono a capirlo. Un’incomprensione ancora più bruciante nel caso di Ruby, perché la famiglia è destinata a restare esclusa dal suo talento canoro. Il film sottolinea con grazia l’incancellabile linea di separazione: quando mostra la soggettiva dei genitori al concerto del coro della scuola, immersi nel silenzio mentre il pubblico si commuove; o alla prova di ammissione al prestigioso Berklee College of Music, quando la figlia traduce nel linguaggio dei segni le parole che sta cantando per consentire ai suoi genitori di entrare nel suo mondo – entrambe le cose c’erano già nell’originale francese.
I Segni Del Cuore ha il pregio del piccolo film che sa esattamente cosa vuole dire, che lo fa senza complessi e senza seguire, per darsi un tono, preziosismi stilistici nobilitanti. È il primo film indie, proveniente dal Sundance, ad aver vinto l’Oscar più importante, ed è pure il primo film distribuito da una piattaforma ad esserci riuscito – non Netflix, come ci si sarebbe attesi, ma Apple Tv+, che ci ha visto lungo. Sotto il profilo formale è un’opera decisamente tradizionale, se non proprio di retroguardia.
Eppure, merito dell’adesione millimetrica degli interpreti – gli attori che compongono la famiglia di Ruby sono tutti e tre sordi, con l’empatico e trascinante Kotsur premiato con la statuetta per il non protagonista –, il racconto funziona. Anche perché non fa nulla per dissimulare la sua volontà di cercare la commozione e l’intesa del pubblico. Onestamente sembra un po’ poco per un riconoscimento comunque prestigioso come l’Oscar. Ma è abbastanza per uno spettatore che chiede una visione coinvolgente e tonificante. Purtroppo, ormai da vivere più sul piccolo che sul grande schermo. Ma questa è un’altra storia.