Leggo una delle notizie del giorno. No, non parlo di giornali, intendendo con questo quotidiani o magazine, ovviamente il tutto online, parlo di social. È lì che si trovano le notizie del giorno, e le si trovano in tempo reale, assai prima che sui quotidiani e magazine, per altro. Certo, sui social le notizie funzionano seguendo dinamiche diverse da come gira il mondo fisico, una notizia finisce in trend topic per ragioni tutte sue, diventa oggetto di commenti compulsivi da parte di chi queste notizie è solito commentarle e a seguire da tutto il resto dei commentatori, gente che nella vita si occupa di tutt’altro, tutt’altro rispetto il commentare notizie, intendo, e anche rispetto alla notizia che vanno compulsivamente a commentare. La notizia sale ulteriormente nei trend topic, diventa la notizia del giorno, o una delle notizie del giorno, e in quanto notizia del giorno capita sotto gli occhi di chiunque, anche i miei. Leggo questa notizia, virale, che in pratica è una più o meno clamorosa gaffes di un marchio prestigioso del Made in Italy in ambito alimentare, non è di questo che voglio parlare, inutile che tiri in ballo il Parmigiano Reggiano. La nuova compagna di spot, diretta da un regista affermato come Paolo Genovese, quello di Perfetti sconosciuti, tanto per citare un titolo tra tanti, e interpretato da Stefano Fresi, uno degli attori più in voga in questi nostri tempi, titolo dell’operazione Los Amigos, Dio solo sa perché. Vulnus della querelle il fatto che, volendo lo spot sottolineare come il formaggio in questione sia un prodotto così di valore, importante, magnifico, uno dei coprotagonisti, tale Renatino, operaio alla produzione del medesimo, lavora con dedizione quasi fanatica 365 su 365, per non perdersi neanche un attimo dei tanti fondamentali passaggi della preparazione, al punto da rinunciare consapevolmente e felicemente a tutto quello che solitamente viene considerata la vita, le vacanze, la cultura, la socialità. Un messaggio elementare, forse non espresso troppo intelligentemente, perché siamo nel 2021 e ti cagano il cazzo per molto meno, per qualsiasi motivo, ma comunque facilmente decifrabile: il Parmigiano Reggiano è il non plus ultra, Renatino, personaggio fittizio stante a indicare che lavora al Parmigianio Reggiano, ha eletto il Parmigiano Reggiano a motivo del proprio vivere, il prodotto prima di tutto. Questo messaggio, raccontato ripeto non troppo sagacemente, nonostante la presenza di Genovese e Fresi, è però arrivato nel mondo di oggi, quello delle notizie che diventano notizie sui social, che salgono nei topic per i commenti e le condivisioni, delle polemiche feroci, bianchi contro neri, Ghibellini contro Guelfi, Montecchi e Capuleti, pronto a essere frainteso, o meglio, a essere letto nella forma disfunzionale che tanto è attuale. Così, nel giro di poche ore, quello che voleva essere uno spot simpatico, Fresi, Los Amigos, Renatino, tutto lascia pensare a questo, diventa uno dei più clamorosi autogoal, peggio pure del topo con la erre arrotondata tipica di chi è nato a Parma. Il messaggio diventa, come nel gioco del telefono senza fili, qualcosa che suona così: chi lavora al Parmigiano Reggiano è schiavo del capitalismo, non ha diritti, non ha ferie, non ha una vita fuori dalla fabbrica, è, ripeto, uno schiavo, felice per di più di esserlo, come la vittima di un lavaggio del cervello. Da questa lettura al diventare un caso da manuale è un attimo. Il Parmigiano Reggiano, era successo in passato a altri prodotti pregiati del nostro Made in Italy, penso alla Barilla dopo le dichiarazioni del titolare riguardo le coppie non etero, vado a memoria, diventa qualcosa da guardare con disprezzo, addirittura da boicottare. Ne parlano tutti, ma proprio tutti tutti, facendo meme, battute, certo, ma anche aizzando polemiche violente, feroci, chiedendo teste, scuse, fallimenti.
Me ne capita sottomano uno, di questi commenti. È un post su Facebook, l’autore è uno scrittore che da tempo si divide tra insegnamento e vita politica, andando a inseguire con una costanza degna di elogio la polemica che abbia una qualche tematica sociale, politica, senza lesinare uscite populiste al punto da essere diventato a sua volta oggetto di polemiche, meme e via discorrendo, in una sorta di loop infernale, di quelli che solo a vederli da lontano mi fa venire il mal di mare. Lo conosco da prima che esordisse, perché in qualche modo si era rivolto a me e un altro scrittore mio coetaneo, più vecchi di lui e già pubblicati, così, per chiedere consigli insieme a un gruppetto di giovani virgulti, tutti poi piazzatisi assai meglio di me e del mio collega coetaneo, almeno stando agli equilibri propri del mondo delle lettere. Certo, il suo amico del cuore, sto continuando a non fare nomi perché non è neanche di questo che voglio in realtà parlare, si è piazzato assai meglio di me, facendo passare lui per il Robin di turno, il Sancho Panza di turno, l’aiutante muto di Zorro, non fosse che parla decisamente troppo. Nel post che mi è capitato sottomano, uno dei tanti dedicati da Sancho al caso del giorno, il nostro si chiedeva a gran voce se nello scrivere questo spot Genovese o chi per lui si fosse rivolto ai sindacati per chiedere la loro opinione, se avesse interpellato i lavoratori, sullo schermo rappresentati da tal Renatino. Non fosse che conosco il mio pollo, ne avrei riso, pensando a una battuta ironica, anche ben scritta, seppur nello stile obsoleto tipico di Sancho, decisamente appesantito da termini presi di sana pianta da certa retorica politica anni settanta, invece ho avuto un moto di mestizia, quasi di malinconia paulista, come se fossi sul punto di imbracciare la mia chitarra acustica per scrivere una bossanova.
Sono quindi andato da mia moglie Marina, che nel mentre era in cucina a finire la colazione, in casa io mi alzo sempre per primo, alle sei e quaranta, e ho quindi modo di farmi un’idea delle notizie del giorno prima di lei. Nello specifico, Marina ha appena finito di fare colazione, sta mettendo il piatto su cui ha riposto della frutta, non saprei quale, ero in altra stanza, nella lavastoviglie, poi apre una delle scansie della cucina per tirare fuori non so bene cosa, immagino qualcosa per la colazione dei nostri figli, sebbene la tavola sia già apparecchiata per loro. Comincio a raccontarle il tutto, partendo ovviamente dallo spot del Parmigiano Reggiano, di cui abbiamo in realtà già parlato la sera precedente, informati da nostra figlia grande, Lucia, ancor prima che dai social. Non è dello spot che voglio raccontarle, quanto del post che commenta lo spot. Questa cosa dell’introdurre un argomento per poi lasciarlo lì, a metà, per passare a parlare d’altro, correlato all’argomento iniziale, ma spostato di lato, lo avrete capito, lo avete testato in prima persona, è un mio vezzo, una mia modalità quasi fissa di raccontare le cose, di affrontare i racconti. Lo sto facendo anche adesso, attenzione. Mia moglie comincia a ascoltarmi, sempre frugando dentro la scansia, poi, mentre io sto arrivando al climax del mio racconto, quello principale, sul posto di Sancho Panza, ecco che tira fuori una cosa, un oggetto che anni fa mia figlia mi ha regalato, Lucia ci fa sempre regali carini e bizzarri, una tazza di metallo con dentro una piccola elica di plastica, una piccola elica di plastica che si attiva con un pulsante sul manico della tazza, così da fare la schiuma nel latte che si mette nella medesima. Conosco quella tazza, me l’ha regalata Lucia, anche se non l’ho mai usata, immagino non ci siano dubbi sul perché. Mentre io comincio la mia invettiva, a voce, badate bene, non ho alcun interesse a prendere parte a risse sui social, da tempo, io che per anni sono stato sensei di scontri sui social, vero e proprio campione mondiale di querelle, di scontri, di catfight, ora che lo fanno tutti mi trovo a disagio, sto appartato, guardo e non commento, spesso neanche guardo, comunque, mentre comincio la mia invettiva sull’idiozia del commento di Sancho Panza ecco che lei, Marina, mia moglie, la luce dei miei occhi, la madre dei nostri quattro figli, colei con la quale condivido la vita da quasi trentaquattro anni, dice qualcosa che suona tipo: “Oggi, quando fai la spesa, compra le pilette, così da domani la usiamo a colazione”.
Faccio una cosa che non dovrei fare, che nessuno che sta raccontando qualcosa dovrebbe fare, anche se quello che sta raccontando qualcosa, è il mio caso, è un appassionato di postmodernismo, figlio illegittimo del massimalismo letterario americano, scrivo e vi dico che scrivo e nel dirvi che scrivo vi racconto come lo faccio, parlando con voi come l’autore che spiega quel che fa la voce narrante, a volte anche parlando con i personaggi dei suoi scritti, ci siamo capiti, faccio quindi una cosa che non dovrei comunque fare, scopro le carte ancor prima di buttarle sul tavolo, andando in qualche modo a stemperare la sorpresa, a guastarmi le feste da solo, ma credo sia necessario, a questo punto, e chi apprezza il massimalismo ben sa quanto questo sia legato al gusto del gesto più che al gesto figlio di una necessità assecondata, quello di cui inizialmente avrei voluto parlarvi, il vero argomento che volevo introdurre, per passare poi ovviamente a altro, è questo: mia moglie che con fare a metà tra la naivete e il candore se ne fotte allegramente di quel che io sto dicendo, per di più per quelli che in giurisprudenza chiamerebbero “futili motivi”, nello specifico il dover acquistare le pilette, leggi le ministilo, per la tazza con l’elica dentro, quella che può fare la schiume nel latte, regalo di mia figlia Lucia.
Fosse il racconto di questo piccolo quadretto familiare il motivo di questo mio scrivere, dovrei proseguire raccontando nel dettaglio quanto io mi sia offeso per questo marcare disinteresse nei confronti di quel che volevo raccontare. Sempre che io mi sia in effetti offeso, ho buttato lì, en passant, che stiamo insieme da quasi trentaquattro anni, mica penserete che non ci abbia in qualche modo fatto il callo. E del resto, siete arrivati fin qui, cioè dopo diecimila e rotte battute di questo testo, mica penserete che mia moglie legga tutto quello che scrivo, gli ottantaquattro libri, le migliaia di articoli, i post sui social, è mia moglie, sono suo marito, ci conosciamo direi abbastanza da non sorprenderci per scene familiari come quella appena descritta. E figuriamoci se comunque quello che scrivo è davvero tutto perfettamente successo, non è il verbale di una assemblea di condominio, quello che state leggendo, è un racconto, poco vi deve interessare se sia fedele ai fatti o meno.
Il punto è questo: parlare e non essere ascoltati, parlare e non capire se quello che si sta dicendo sia o meno di interesse per chi dovrebbe starci a ascoltare, parlare e vedere tutto il proprio trasporto spazzato via da un’elica piccola piccola posta sul fondo di una tazza da latte.
Intendiamoci, lungi da me affrontare così, en passant, una tematica come quella della incomunicabilità, tema altissimo e attualissimo, certo, ma che necessiterebbe ben altro approfondimento. Non è un discorso generico che sto portando avanti, lo avrete capito, ho tirato in ballo un caso specifico di cronaca spicciola, virale, e ho poi spostato la narrazione su di me e mia moglie, direi che quanto a specificità sono stato piuttosto radicale.
Per entrare in questa specificità, per affrontarla, torno un attimo sul Parmigiano Reggiano e sullo spot Los Amigos, così tanto discusso. Mica avrete pensato che fosse un pour parler, no? In tarda notte del giorno in cui è esploso il caso, sui social, Stefano Fresi, protagonista con “Renatino” della clip, ha deciso che era il caso di rispondere alle tante critiche ricevute. Non a tutte, ci ha tenuto a dire, ma solo a quelle garbate e educate, perché gli attacchi violenti non meritano attenzione e risposta, ha aggiunto. Lo ha fatto parlando sottovoce, in una stanza d’albergo, dentro un video a uso dei medesimi social, e lo ha fatto usando un linguaggio forbito, colto, è un attore, sa come si parla, è chiaro. Nel suo breve monologo, poco più di quattro minuti, niente rispetto ai milioni di parole spesi durante il giorno sull’argomento, Fresi ci ha tenuto a spiegare la differenza tra realtà e finzione, aspetto in realtà piuttosto manifesto ma che per alcuni necessita di didascalie, andando a toccare, fuggevolmente, altri spot, a suo modo di dire altrettanto finzionali, altrettanto smaccatamente finzionali. Nello specifico, siamo sempre nello specifico, ricordo, quello di La valle degli Orti, il riferimento è all’anziano che guarda un campo col nipotino, sbolognato con una punta di sarcasmo con la frase “e sono surgelati”, quella del Mulino Bianco, in questo caso si parla di una gallina che gira in una casa bianca e illuminata dal sole, e non ricordo quale altra. Tutto finto, dice Fresi, tutto atto a raccontare la bontà di un prodotto, a venderlo.
Nessuna ambiguità, in quel che dice Fresi, come nel messaggio degli spot, a saperli decifrare, uno spot non può dirti che se mangi qualcosa campi cent’anni, perché sarebbe pubblicità ingannevole, ma te lo può raccontare usando poesia e metafora, e questo tendenzialmente fa. Credere alle pubblicità, del resto, è gesto familiare, cui siamo ormai assuefatti, ma per certi versi innocuo, il suo dirci il falso è manifesto nel fatto stesso che ci stanno vendendo qualcosa senza che noi glielo si sia chiesto. Il fatto che Fresi sia stato in qualche modo costretto a sottolinearlo, forse, ci dice più su chi guarda che su chi mostra, ma di fatto sancisce la fine di un patto tra narratore e spettatore, serve un sottopancia per specificare l’ovvio, qualcosa non ha funzionato.
Provo a mettere insieme quanto ho sin qui provato a buttare sul tavolo, in questo testo. Provo, cioè, a tirare le fila.
Comunicazione e incomunicabilità, quindi.
Sono anni, forse decenni, che si dice che nel mondo della cultura non è più possibile dire qualcosa di nuovo, di interessante, di originale. Lo si fa, così, impunemente, considerando di default la cultura solo una faccenda annessa all’ambito umanistico, perché sfido io a dire che in campo scientifico non si stia dicendo nulla di nuovo in questi anni, prova ne è che se ne parli prevalentemente in uno spazio virtuale che fino a qualche decennio fa non era neanche immaginabile, spesso digitando su apparecchi che a loro volta non esistevano, neanche come idea, ma tant’è. Prendiamo questi lai e lamenti riguardo all’incapacità della cultura umanistica di esserci e di esserci compiutamente. Tutto quel che si poteva pensare, parlo di filosofia, è stato scritto, detto e pensato fino al Novecento. Tutto quel che si poteva comporre, parlo di musica, è stato composto sempre fino a quel medesimo traguardo. Idem per la letteratura, seppur lo sconfinamento tra generi, l’autofiction, il memoir, quella roba lì, in qualche modo possa essere ancora visto come l’ultimo colpo di reni prima di stirare per sempre le gambe. Tutto è stato fatto, ora si può vivere di ricodi, e di remake, la famosa retromania cui Simon Reynolds ha dedicato un libro fondamentale, di più, l’incapacità di evolversi che è stata fermata su carta, virtuale e non, da Mark Fisher, talmente convinto del fallimento delle istanze contemporanee da aver scelto la via del suicidio per uscire di scena, lucidamente.
Ecco, ora farò una cosa che agli occhi dei distratti potrebbe apparire una forzatura, una mostruosità, quasi, come quegli scienziati che creano cavalli così piccoli da poter stare tranquillamente su un tavolo, o frutti con forme geometriche innaturali, con gusti innaturali, per non dire di chi azzarda sciempi genetici anche sull’uomo. Ho già introdotto il primo passaggio di questa mostruosità, in maniera subdola, ora vado per la via principale, dichiarandomi. Prendiamo proprio le pubblicità tirate in ballo da Fresi. Sono anni, questi, nei quali la tendenza delle pubblicità applicate all’alimentazione vertono sempre e immancabilmente sulla bontà dei prodotti, meno sul gusto. Mi spiego. Un tempo per spingere una persona a acquistare un prodotto si sarebbe detto che è gustosissimo, raccontandolo, mistificando come le pubblicità hanno sempre fatto, sui colori, sulla forma, su tutto, come qualcosa di incredibile, di buonissimo. Oggi si tende sempre a parlare di bontà, ma con questo si vuole sottolineare come il prodotto sia a impatto zero, bio, possibilmente, del tutto naturale, ecologico, non inquinante. Non esiste altra vita, se si vuole parlare di alimentazione, perché questo è il tema della nostra contemporaneità, giustamente. Senza farla troppo complicata, è evidente che se anche la pandemia che ci sta tenendo agli arresti ormai da quasi due anni è riconducibile a un rapporto malato dell’uomo col pianeta che ci ospita, e se le tematiche portate avanti da Greta Thumberg, uso lei come modello narrativo, è evidentemente che non sia solo lei a farlo, e che sia una questione che riguarda anche tutti i governi di tutti i paesi, vertono incontrovertibilmente sulla fine delle risorse del pianeta, sul futuro a orologeria, su un radicale cambio dei nostri comportamenti, necessario e finalizzato a provare a metterci una pezza, sempre che sia possibile, forse significa davvero che il tema “risorse del pianeta” sia davvero IL tema, quello centrale, fondamentale, imprescindibile.
Bene, ecco il mostro, la forzatura, mostro e forzatura cui Mark Fisher, di sfuggita, fa cenno in un suo scritto raccolto nell’ultimo volume meritevolmente pubblicato da Minimumfax, “Scegli le tue armk- Scritti sulla musica- K- Punk vol. 3”, non è che tutto questo nostro lamentarci dell’impossibilità di dire, scrivere, comporre, creare qualcosa di nuovo, originale, capace di fermare l’oggi su pagina, spartito, tela, video, non sia in realtà altro che la conferma della fine delle risorse intellettuali e culturali del nostro pianeta? Non è, cioè, che abbiamo davvero fatto, uso questo termine vago, avete capito che sto parlando di tutto ciò che concerne la cultura umanistica, tutto quel che si poteva fare, e che non ci resta altro che ripeterci, darci al revival, alla retromania? In caso, dov’è una Greta Thunberg capace di concentrare l’opinione pubblica su questo? Dov’è qualcuno che sottolinei come il blaterare di certa musica, mi riferisco a questa specifica forma d’arte per lo stesso motivo per cui ho citato in esergo un avvenimento che ha me e mia moglie come protagonisti, per andare dal generale al particolare, definendola come nuova, contemporanea, magnificandone le qualità, non sia altro che il corrispettivo culturale dell’ormai iconico BLA BLA BLA? Oh, poi magari è solo che sono stanco e oggi le vedo tutte nere, eh.
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