Narcos: Messico 3 non è il finale di serie che ci soddisfa. Semplicemente perché ne vorremmo ancora e ancora e ancora. Dopo tre stagioni ambientate in Colombia ed altrettante alla frontiera degli Stati Uniti, il più grande mercato al mondo per le sostanze stupefacenti, l’intero franchise si conclude lasciando la sensazione di un affresco incompiuto e un enorme desiderio di vederne di più. Più storie, più stagioni, più temi trasversali, perché l’universo narrativo creato da Chris Brancato e Carlo Bernard è un pozzo infinito di spunti di enorme attualità sebbene sia ambientato nel secolo scorso.
Narcos: Messico 3 è senza ombra di dubbio la migliore delle tre stagioni dello spin-off, un format che è stato capace di partire come prequel, ambientato alla fine degli anni Settanta, e proseguire fino a diventare un sequel, superando di diversi anni i fatti della serie madre. In questo modo Narcos: Messico ha abbracciato il format da cui è nato (quasi come costola e in tono minore), fino a diventare la sua celebrazione massima, l’omaggio ultimo ai personaggi chiave della saga, ma soprattutto un tributo agli eroi silenziosi della guerra ai narcos e alle vittime collaterali di un Paese dannato.
Narcos: Messico 3 amplia enormemente il racconto dell’evoluzione della guerra al narcotraffico in Messico diventando una serie del tutto corale e perfettamente calata nello spirito del tempo. Archiviata la lunga epopea di Felix Gallardo, che pure in modo spettacolare si era trascinata in maniera eccessivamente lenta nel corso delle due stagioni, la terza riesce molto più delle precedenti ad incollare lo spettatore allo schermo dall’inizio alla fine, coinvolgendolo in un doppio registro del discorso. I due piani sono ben chiari e si intersecano in continuazione: la tentata repressione del fenomeno dall’alto incrocia la lotta di potere orizzontale tra i cartelli, che si contendono piazze e sbocchi alla frontiera per i loro traffici con gli States. Una competizione che diventa una guerra sanguinaria, a suon di agguati, tradimenti e vendette, in cui Juarez è destinata ad avere la meglio su Tijuana e Sinaloa, con l’intelligenza e la strategia di Amado Carrillo Fuentes premiate di fronte alle tattiche più rozze dei rivali Arellano Felix ed El Chapo Guzman.
Un trittico di famiglie criminali fa di Narcos: Messico 3 una cruenta guerra di posizione, in cui svetta il “Re dei Cieli” Amado Carrillo Fuentes, capace di dominare le rotte aeree e contemporaneamente, a terra, di fare affari coi colombiani dell’era post-Escobar (col ritorno in scena dei fratelli Rodriguez e un finale poeticamente tragico per Pacho Herrera). Come vi sia riuscito è svelato soltanto nel penultimo episodio, quando i coraggiosi giornalisti del quotidiano La Voz, minacciati e a rischio della loro stessa incolumità, pubblicano la notizia della decennale corruzione del più alto membro dell’esercito incaricato di contrastare il narcotraffico, il generale Rebollo: praticamente una partita vinta in partenza quella di Carrillo Fuentes, grazie alla sua capacità di tenere in scacco le istituzioni fino alla fine, anche quando il suo volto, quello del narcotrafficante messicano più ricco del Paese negli anni Novanta, campeggiava su tutti i telegiornali con una taglia sulla sua testa. Un’abilità dimostrata anche dopo la sua presunta morte, tra vendette e occultamenti, che nella serie diventa il caso perfetto per un finale misterioso e aperto: in questo senso, pur senza la grandeur che circondava Gallardo, Amado Carrillo Fuentes si è rivelato un personaggio strepitoso, stratificato, dilaniato da conflitti interiori, lutti e sentimenti che ne fanno il perfetto antieroe a cui dedicare la stagione finale.
Narcos: Messico 3 riesce a dare il giusto peso a tutti gli sfidanti in campo (dai fratelli Arellano in cui spicca la volitiva Enedina al guizzo creativo de El Chapo) ed evita di avvitarsi su se stessa come era capitato talvolta in precedenza, laddove la preminenza del personaggio di Gallardo impediva di generare un sano interesse per gli altri personaggi. Ma soprattutto scava nel profondo della lotta tra buoni e cattivi senza distinzioni manichee, mostrando la corruzione, l’illegalità, lo spregio delle regole e dei diritti umani su entrambi i fronti. Se l’aspetto endemico della corruzione era già presente sin dal debutto di Narcos (“Plata o plomo“, “Soldi o pallottole” era il motto di Escobar nel minacciare chiunque indossasse una divisa), stavolta si tratta di un sentimento più viscerale, che infetta ognuno singolarmente oltre che la società nel suo complesso. Non ci fa una bella figura l’esercito messicano guidato da un generale al soldo del peggior narcotrafficante del Paese, per il tramite di un imprenditore e magnate della finanza senza scrupoli che sarà l’unico a farla franca, ma non ne esce bene nemmeno la DEA, divisa tra l’idealismo del protagonista Walter Breslin e la disillusione dei suoi superiori, tra l’anelito a seguire la legge e il compromesso morale di accettare metodi di tortura identici a quelli dei criminali perseguiti.
In Narcos: Messico 3 l’uomo che aveva abbattuto il cartello di Guadalajara con l’Operazione Leyenda è ora sempre più solo, costretto a ripensare alla sua vita e a scegliere se valga la pena viverla così, per combattere una guerra che per i due Paesi coinvolti è solo di facciata e serve a giustificare gli accordi commerciali del NAFTA. Sul campo sconfiggere i narcos non interessa né alla politica né tantomeno ai cittadini piegati dal terrore di veder spuntare a ogni angolo di strada cadaveri smembrati, corpi appesi ai cavalcavia, teste decapitate come avvertimento. Questo aspetto splatter di Narcos: Messico 3 è più realistico di quanto si possa immaginare, visto che ancora oggi in Messico, anche in città enormi e di grande richiamo internazionale, c’è una strage continua con decine di vittime al giorno tra boss, affiliati, giovanissime reclute, loro congiunti, vittime innocenti.
Narcos: Messico 3 non ha nulla di definitivo nella sua conclusione, semmai ha il pregio di ricordarci che siamo ancora a quel punto. E proprio per questo non lascia soddisfatto lo spettatore più incallito, perché sa che potrebbe veder raccontati almeno altri vent’anni di vicende simili con la stessa maestria. Questa serie si conferma il capolavoro assoluto di Netflix – paragonabile per qualità drammaturgica solo a The Crown – grazie ad una scrittura eccellente e meticolosa che sa mixare sapientemente la Storia con la S maiuscola e le vicende di singoli personaggi, veri o fittizi, in un quadro che si dispiega in tutta la sua violenza, crudezza, disillusione, talvolta con sparuti sprazzi di tenerezza. Quest’ultima, per esempio, affiora nella storyline dedicata alla mattanza di donne avvenuta in Messico nell’ultimo ventennio del secolo scorso: decine di migliaia di ragazze più o meno giovani uccise perché vittime di tratta, schiave sessuali o semplicemente oggetto delle violenze degli uomini che nel vederle emanciparsi col lavoro nelle fabbriche le hanno considerate delle prede da catturare, per restaurare il concetto radicato del corpo femminile come proprietà maschile. In questo senso Narcos: Messico 3 rende omaggio a tutte le vittime di una violenza cieca e inspiegabile, esplosa apparentemente senza che ne fosse chiaro il movente, una scia di terrore ulteriore che andava ad aggiungersi a quella delle guerre tra cartelli. Il filone che racconta l’indagine del poliziotto corrotto Victor Tapia, via via sempre più deciso a trovare la verità sulla scomparsa di una ragazza, finisce per diventare una martellante ossessione per quei corpi di donne martoriati, incaprettati, torturati e infine scaricati come immondizia nelle periferie della città di Juarez. Fino alla macabra scoperta che non si tratta di uno o più serial killer, ma di un fenomeno di massa: una strage continua, diventata quasi un elemento endemico, di cui nessuno si è mai preoccupato di indagare in un quadro più ampio.
La scelta di cambiare il narratore in Narcos: Messico 3, inizialmente difficile da digerire a fronte dell’abitudine a sentire raccontare l’evoluzione delle vicende dalla voce del soldato Breslin, diventa invece l’altro grande tributo della serie, quello ai giornalisti che a decine sono morti nella guerra iniziata dopo il crollo dell’impero di Gallardo e che ancora oggi molto spesso pagano con la vita la loro ricerca della verità. Il personaggio interpretato dalla giovane new entry Luisa Rubino, Andrea Nuñez, rappresenta il classico escamotage con cui una categoria di persone viene incarnata da un singolo personaggio sulla scena per esigenze di semplificazione. Resta comunque palese l’intento degli sceneggiatori di rendere omaggio ad una pluralità di individui, uomini e donne, che si sono sacrificati concependo il loro mestiere di cronisti come una missione, che hanno scavato nei rapporti tra cartelli, imprenditoria, politica e autorità militari fino a far emergere casi clamorosi come l’inchiesta che portò all’arresto di Rebollo e alla sua condanna a 40 anni di carcere. Perché tutto quanto raccontato dalla voce fuori campo dell’indomita giornalista è vero, è supportato da numeri, dati, informazioni, correlazioni che fanno la struttura portante di Narcos, pur abbellita e romanzata come ogni opera di finzione. In questo senso affidare il ruolo di guida al personaggio di una giornalista, dunque al di sopra delle parti, e per di più una donna in un Paese in cui le donne sono carne da macello, nonostante qualche eccesso di retorica si è rivelata una scelta premiante. C’è perfino un momento di metatelevisione, un incontro tra i due narratori della serie – Breslin e Nuñez – che nel finale fanno un bilancio del fallimento della lotta ai cartelli, mettendo bene in evidenza come non vi siano verità né ragioni assolute da rivendicare, nemmeno dalla parte dei “buoni”. Accusato spesso di essere un dramma raccontato dal punto di vista dei gringos e di alimentare gli stereotipi sui latinoamericani e sui narco-stati, stavolta Narcos non ha fatto sconti a nessuno e ha messo in luce tutte le contraddizioni e le mancanze dei presunti eroi della storia.
Ogni episodio di Narcos: Messico 3 è un’esperienza a sé che può contare su contenuti potenti e una qualità cinematografica assoluta, che passa dalla cura di ogni singolo dettaglio (dalle tazze di caffè realmente fumanti ai cadaveri di cui ti sembra di sentire l’odore di putrefazione) e da una regia impeccabile che ne fa al tempo stesso un film d’azione e un romanzo introspettivo, un documentario e una telenovela latina. Il ritorno di Wagner Moura dietro la macchina da presa per due episodi, tra cui quello della celebre sparatoria di Guadalajara del 1993 orchestrata dal cartello di Tijuana per uccidere il rivale El Chapo, chiude all’insegna della nostalgia e della gratitudine questa incredibile produzione che ha rappresentato il primo grande gioiello di Netflix, anche se non ha ottenuto i premi che avrebbe meritato ma solo qualche riconoscimento minore. Questo aspetto lascia un po’ l’amaro in bocca, come quel finale così indefinito che scorre sui titoli di coda dell’ultimo episodio di Narcos: Messico 3 e che ti fa pensare che sia impossibile che si chiuda così, che ce ne sarà ancora, che non c’è una fine. E chissà che tra qualche anno la partita non si riapra.
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- Pedro Pascal, Wagner Moura, Boyd Holbrook (Actor)