Joker, il cinecomic da Oscar con Joaquin Phoenix

Alle 21.20 su Canale 5, il film di Todd Phillips è allo stesso tempo un cupo racconto d’autore alla Scorsese e uno spettacolo popolare da un miliardo al botteghino. Impressionante Phoenix

Joker

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Joker è stato il vero caso cinematografico degli ultimi anni, per le dimensioni del successo, ma soprattutto per la risonanza mediatica che l’ha reso un fenomeno di costume e dibattito, visto anche il timore, all’uscita, di emulazione della violenza così crudamente rappresentata nel film. Un’opera che si è posta al crocevia tra film d’autore drammatico – la confezione cupa, l’apologo pessimista – e spettacolo popolare, cui rimanda l’appartenenza all’universo pop dei cinecomic, dato che, almeno formalmente, costituisce l’origin story dell’arcinemico di Batman.

Si spiega così, da un lato il plauso degli addetti ai lavori, che hanno incoronato il regista Todd Phillips, proveniente dal cinema leggero e demenziale della serie Una Notte Da Leoni, con un generoso Leone d’Oro alla Mostra di Venezia. Dall’altro l’enorme gradimento del pubblico, con un incasso globale che ha superato il miliardo di dollari. A chiusura del cerchio sono giunti gli Oscar, undici nomination e due statuette: una all’insinuante colonna sonora della compositrice islandese Hildur Guðnadóttir, l’altra all’interpretazione indimenticabile di Joaquin Phoenix, che con la sua impressionante fisicità contorta conduce di peso la pellicola in un territorio che col cinema supereroistico ha labili relazioni – e infatti gli elementi narrativi inseriti per collegare la storia del film alla vicenda di Batman restano accessori.

Joker è inequivocabilmente un’opera seria. Il protagonista Arthur Fleck è un modesto clown con ambizioni da stand up comedian. Vorrebbe, dice, diffondere felicità e allegria, in verità è un uomo tetro, tormentato ai limiti della psicosi, con un disturbo che si manifesta in squassanti crisi di riso immotivate. Arthur vive con la madre malata, ossessionata dal miliardario Thomas Wayne, padre di Bruce, per cui un tempo ha lavorato, al quale scrive misteriose lettere piene di recriminazioni. Accanto a lei il protagonista conduce una vita senza sviluppi, congelato nella dimensione di figlio malcresciuto, incapace di intrattenere relazioni adulte affettive coi suoi simili, almeno fino a quando non conosce la vicina di casa Sophie (Zazie Beetz), con cui pare iniziare una relazione.

La sceneggiatura di Todd Phillips e Scott Silver, per produrre la quale è stato a lungo in predicato Martin Scorsese, è profondamente legata al suo immaginario newyorkese di Taxi Driver e Re Per Una Notte. Dal cinema di Scorsese e della New Hollywood, Phillips trae il minaccioso immaginario metropolitano. La Gotham City di Joker, ambientato nel 1981, è una New York anni Settanta sporca, aggressiva, alienante. Come il Travis Bickle di Taxi Driver, Arthur guarda catatonicamente la televisione. E come il Rupert Pupkin di Re Per Una Notte sogna un improbabile successo televisivo, da ottenere tramite un’ospitata nella trasmissione di Murray Franklin (Robert De Niro, che era stato Pupkin, e anche Bickle), famoso anchorman che nelle allucinazioni di Arthur si trasforma in una figura quasi paterna.

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All’impianto Joaquin Phoenix aggiunge un’interpretazione che scandisce ed esaspera il tono del racconto. Il suo pauroso pallore, la magrezza malsana, le risate isteriche delinenano il ritratto di un uomo ai confini, avvitato nelle sue recriminazioni. La recitazione esasperata dell’attore si muove lungo la soglia dell’overacting, che in questo caso non è un difetto bensì una cifra espressiva cercata, per condurre il personaggio in un territorio limite, disturbante. La sua furia solitaria però – questo il dato “politico” del film, e la lente attraverso la quale è stato largamente recepito – si connette alla rabbia della gente comune, che in lui, una volta che ha indossato la maschera sinistra e sorridente di Joker, riconosce un simbolo, interprete di istanze collettive nel segno dell’odio di classe e della rivolta, che conducono a scoppi di violenza metropolitana contro ricchi e potenti. Siano essi il miliardario Thomas Wayne, che vuole fare il sindaco, o il cinico Franklin, che ospita Arthur/Joker nel suo show, facendo leva sul caso umano patetico per aumentare audience. Solo che il freak si ribella, innescando, volutamente o meno, un’apocalisse.

La psicopatologia di Arthur, però, fatica a definirsi come spia di qualcosa di più generale, a meno di non voler dar credito alla corrispondenza quasi meccanica che Joker suggerisce tra sofferenza individuale e collettiva, nella quale evidentemente la prima sarebbe l’effetto della società malata che l’ha prodotta. Il film ha l’ambizione di delineare, attraverso il filtro di un protagonista dai tratti estremizzati, un affresco sull’impazzimento del mondo e l’incrudelirsi della società occidentale, sempre più avvitata nella sua grettezza spietata. Time Out l’ha definito “una versione veramente angosciosa del tardo-capitalismo”. E Michael Moore l’ha letto come un film “sull’America che prodotto Trump, l’America che non sente il bisogno di aiutare gli emarginati”, riconoscendolo come una puntuale opera di critica sociale.

Difficile però trarre conseguenze così esemplari dal ritratto di una personalità borderline come Joker, i cui moventi restano puramente nichilistici, non manifestando mai alcuna visione di riscatto sociale. Come ha scritto il filosofo Slavoj Žižek, “Joker resta un essere pulsionale”. Non desidera cioè una palingenesi del mondo, ma resta compulsivamente avvitato nella sua collera ripetitiva. “I suoi scatti violenti – continua Žižek – sono solo impotenti esplosioni di rabbia”. E sono esattamente quelle a renderlo “il nuovo leader di una tribù, ma senza alcun programma politico, come unico risultato di un’esplosione di negatività”, cieca e senza progetto.

L’impressionante interpretazione di Joaquin Phoenix, magnifica, spossante e aderente, è però in linea con questa ossessività ripetitiva, giocata su una sola nota espressiva costantemente reiterata. L’attore sembra muoversi alla superficie del personaggio, infatti mostrato spesso a torso nudo per sconcertare con la sua magrezza. Dietro la fisicità patibolare però fanno capolino cause scatenanti di ordine psicologo elementari, che hanno a che vedere con la figura materna anaffettiva e quella paterna assente.

Anche la regia di Todd Phillips resta ferma alla superficie di una forma parassitaria. Joker mostra fin troppo la sua natura derivativa: dichiaratamente da Scorsese, ma anche da Quinto Potere, cui il discorso sui media e il sottofinale rimandano pesantemente. Anche il mondo sull’orlo del collasso, più che costituire la tesi da dimostrare, è un elemento posto qualunquisticamente come premessa. E nella genericità dell’assunto del film, che pure è visivamente affascinante, Joker rischia di far la figura ambigua del giustiziere, dell’esaltante e anarcoide vendicatore degli oppressi.