Rifkin’s Festival, Woody Allen e il cinema come eterno ritorno dell’uguale

Dal 6 maggio arriva in sala l’ultimo film del regista newyorkese. La storia è una stanca variazione su temi visti tante volte. Ma a Woody Allen interessa solo fare film. È il suo modo per dare un senso alle cose

Rifkin’s Festival

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Cosa importa della trama nell’ultimo film di Woody Allen, Rifkin’s Festival? Intanto la notizia è che il film esce, dal 6 maggio, nelle sale italiane. E lo è per davvero una notizia. Non solo perché la pellicola arriva nei cinema dopo i rinvii dovuti all’emergenza Covid. Ma soprattutto perché di questi tempi che un film di Woody Allen venga distribuito è tutt’altro che scontato. Infatti negli Usa nessuno vedrà Rifkin’s Festival, perché dopo le note vicissitudini relative ai presunti abusi (su cui è tornata una controversa docuserie trasmessa da Hbo), nessuno è più disposto a investire un dollaro sull’attore e regista newyorkese. “La carriera da filmmaker di Allen negli Stati Uniti è sostanzialmente finita“, dice senza mezzi termini Variety.

Allora è più che comprensibile, forse inevitabile, che Allen torni come ha fatto tante volte negli ultimi vent’anni a girare in Europa, in questo caso a San Sebastian, dove è ambientata la storia di Mort Rifkin (il delizioso Wallace Shawn, alter ego del regista), ex professore di cinema americano giunto al festival cinematografico della cittadina spagnola al seguito della moglie Sue (Gina Gershon), press agent che è lì per promuovere l’ultimo film del vanesio Philippe (Louis Garrel), il regista francese più alla moda del momento. Ovviamente Sue e Philippe hanno una tresca, mentre Mort conosce un’affascinante dottoressa (Elena Anaya), sposata a un fedifrago pittore spagnolo, con cui passa bellissimi momenti – s’inventa qualunque malanno per avere una scusa per incontrarla – e con la quale spererebbe, chissà…

La trama di Rifkin’s Festival è poco più d’una variazione su di uno spartito visto tante volte soprattutto nell’Allen più recente, con al centro un personaggio nevrotico giunto a un momento della vita in cui misura la distanza tra ambizioni, aspettative e ciò che ha realmente realizzato. Ovviamente scoprendo che il saldo è tutt’altro che in attivo, e con la sensazione di fallimento ingigantita dallo scorrere del tempo, che rende sempre più urgenti le domande su chi siamo davvero.

Come il Gil Pender di Midnight In Paris, Mort ha in eterna gestazione un romanzo cui consegna le sue più alte aspirazioni, confidando sia quello a poter dare un senso alla sua vita e rivelare la sua autentica vocazione. Ma probabilmente sa già che non lo terminerà mai. E, come Gil, finisce per rifugiarsi in un altrove, varcando la soglia mediocre della realtà alla ricerca di una dimensione immaginaria o fantastica più gratificante. Per Gil sono gli incontri entusiasmanti di una Parigi anni Venti che gli si squaderna magicamente davanti agli occhi, accanto agli Hemingway, i Fitzgerald, le Gertrud Stein e tutta la Generazione Perduta con cui chiacchiera amabilmente credendo di sentirsi finalmente diverso.

Mort invece, da inguaribile cinefilo, si ritrova dentro le pellicole che ha più amato, tutte inevitabilmente europee, con versioni riaccomodate sulla sua esistenza di , Fino All’Ultimo Respiro di Godard, Jules E Jim, L’Angelo Sterminatore di Buñuel e, prevedibilmente, tanto Ingmar Bergman. Il più delle volte, però invece di sogni sono incubi, che gli rilanciano altri interrogativi su di sé.

E anche qualche risposta, come nel caso della Morte (un divertito Christoph Walz) con cui gioca a scacchi, la quale si rivela piuttosto saggia e certamente meno malinconica di Mort. Semplicemente, lei il senso – anzi la mancanza di senso – della vita l’ha inteso da un pezzo, e sa che, come l’avrebbe detto un altro personaggio di Allen, l’importante è che le cose funzionino, impegnandosi quel tanto possibile col lavoro, la famiglia, l’amore. Non per l’ambizione di altisonanti successi, ma per cercare di fare cose, talvolta riuscendo, talvolta fallendo. E poi ricominciando.

Allen, Wallace Shawn ed Elena Anaya sul set

Allen sembra seguire lo stesso ciclo tra malinconie, ugge esistenziali, successi, rovesci e nuovi tentativi. Che in lui assumono la forma del fare film, il suo modo per far funzionare le cose, nonostante tutto. A Rifkin’s Festival da spettatori potremo giustamente rimproverare la ripetitività, il ritmo blando da operina vacanziera, la mancanza di curiosità nel tratteggio di personaggi un po’ cartonati (il pittore spagnolo tradisce la moglie perché è artista, quindi tutto istinto e passione creativa), con gente che si chiede didascalicamente “Chi sono io”, e donne che dicono “è tutta la vita che aspetto qualcuno che arrivi a salvarmi” – frasi maschiliste che al giorno d’oggi nessuno più avrebbe l’impudenza di far pronunciare a un personaggio femminile. Ma queste sono tutte cose che a Woody Allen interessano poco. Per lui l’unica cosa che conta è girarli, i film. Anche se per il pubblico l’effetto sarà quello, inevitabile, del déjà vu.