“Guarda che quello è matto”.
Anni fa il direttore di uno dei giornali col quale lavoravo e ho più a lungo lavorato si è sentito in dovere, forse anche in diritto, del resto lui era il direttore e io no, di dirmi che un noto editore radiofonico, quel noto editore radiofonico, a voi immaginare quale, parlando di me se ne era uscita con questa frase.
Detta tra lo spaventato, poco, immagino, conoscendo l’editore in questione, un’idea del mondo un po’ meno fluida di come ascoltando la sua radio si possa supporre, e l’ammirato, questo già lo credo più possibile, perché, cavallo pazzo quale è, non ha mai mancato di tributare stima a chi non ha difficoltà a apparire per quello che è, specie se quello che è equivale a qualcosa di quantomeno eversivo e non effimero, e specie se quello che è contribuisce o ha contribuito in qualche modo a portargli guadagni, essere una voce fuori dal coro può equivalere a diventare essere riconoscibili, e quindi utili a chi gestisce una radio, un nome è un nome, e comunque è meglio avere un cavallo pazzo tra le proprie fila che sapere che il cavallo pazzo è nelle fila di qualcun altro.
Chiaro, c’è il rischio che tra un colpo di mitra e l’altro ci scappi qualche ferito e morto tra le proprie file, caduto sotto quello che in gergo viene chiamato “fuoco amico”, succede e si mettono in conto queste ipotesi, ma è molto più probabile, deve aver pensato l’editore di cui sopra, che siano altri i feriti e i morti, non solo per la legge dei grandi numeri, se dai un sventagliata di mitra a centottanta gradi, mettiamola così, i colpi sono sparsi su tutta la filiera, non su una singola parte, ma anche per la faccenda del sentirsi in qualche modo parte di una grande famiglia.
Le parole mitra e famiglia, sia chiaro, si trovano in questo capitolo a mo di metafora.
Ecco, il fatto che io abbia continuato a sparare anche ai membri della mia grande nuova famiglia, comunque, credo abbia contribuito non poco a far uscire l’editore radiofonico con quella frase lì, “Guarda che quello è matto”, con chiaro riferimento alla mia ingovernabilità, al mio essere ingestibile, al mio, in poche parole, essere sempre e comunque libero. Anche un po’ anarchico, a dirla tutta, una idea di giustizia ben precisa, ma non necessariamente coincidente con le idee vigenti.
In questo due fattori hanno sicuramente pesato nel momento in cui, dopo esserci conosciuti a distanza, nel senso che lui, l’editore, è entrato a conoscenza della mia esistenza, io sapevo da lungo tempo della sua, nel momento in cui ho iniziato a scrivere con insistenza di lui e di quelli che all’epoca con lui intrattenevano strategie e affari, fatto, questo, che ha portato al nostro conoscersi di persona, un primo incontro di studio, tra minacce e lusinghe, poi l’idea di collaborare insieme, ma al primo incontro una duplice meraviglia, anche vagamente naif: primo, non ero poi così giovane come il non avermi mai conosciuto, cioè non aver mai ricevuto da me richieste di un qualche tipo di collaborazione, fatto che evidentemente mi distingueva da buona parte dei miei colleghi, e non avermi mai neanche visto a quegli eventi mondani nei quali i miei colleghi tendono a fiondarsi per pavoneggiarsi o cercare di raccattare attenzioni, me lo ha proprio detto esplicitamente, qualcosa come “ma non sei giovane, dove sei stato nascosto fino a oggi?”, secondo, ero eterosessuale, fatto che lo ha meravigliato non tanto perché il mio scrivere fosse a suo dire o pensare in qualche modo ascrivibile a una poetica omosessuale, credo che nessuna delle parole contenute nell’ultima frase rientri nel suo immaginario, quanto piuttosto perché ho i capelli lunghi, parecchio lunghi, fatto che mi distingue dai miei colleghi, tutti piuttosto pettinati e integrati, e fatto che invece, nell’immaginario di una certa generazione, la sua, viene vista come indicatore di un orientamento sessuale ambiguo, non sto usando un mio modo di ragione, non alzate il ditino, vi prego, scoperta, questa del mio essere eterosessuale, fatta casualmente durante il discorso, lui mi ha tirato in ballo i figli come a volersi nascondere dietro la famiglia per dirsi vulnerabile, io gli ho risposto coi miei figli, per fargli capire che questo è un tasto con me non giocabile, al che ha detto una frase entrata nella mia top ten di sempe, “ah, ma quindi sei della vecchia?”.
La cosa della ingestibilità, invece, in effetti, è stata proprio tirata in ballo subito dopo quella prima frase, quella dell’incipit di questo capitolo, “Guarda che quello è matto”, mi ha riferito il direttore del giornale per il quale scrivevo all’epoca, non so se sia stato fatto anche chiaro riferimento al provare a imbrigliarmi con tecniche consolidate nel tempo, nei secoli direi, “ti pago”, “lavori per me”, “ti divento amico”, ma il ragionamento sotto traccia era in effetti sufficientemente chiaro per non necessitare né didascalie né disegnini.
Lui, il direttore del giornale per il quale lavoravo ai tempi, mi ha riferito orgoglioso, ha finto di cadere dal pero, intendiamoci, non è che io ci sia cascato a mia volta, ma lui ha detto che è caduto proprio dal pero, senza fare riferimento alla finzione, perché, ha sottolineato, mai c’è stata da parte sua nei miei confronti nessun tipo di ingerenza o richiesta particolare, quindi non capiva in che termini io sarei ingestibile o matto.
A dirla tutta, siccome il direttore del giornale per il quale scrivevo ambiva in maniera piuttosto evidente non solo a trovare spazio dentro quella radio, ma più un generale ambiva a diventare un volto e una firma e una voce nota, un opinionista di quelli che i programmi si contendono, col cazzo che ha detto all’editore di cui si sta parlando la frase riguardo se stesso e il non aver mai fatto ingerenze nei miei confronti, frase che invece avrebbe sottinteso come lui, l’editore radiofonico che mi aveva appena definito matto, fosse solito farmene, per altro senza trovare in me un terreno fertile. Avrà molto probabilmente sorriso, dicendo che sono bizzarro, eccentrico, strano. Ci sono abituato, e per dirla con Socrate, in mia assenza mi possono pure ammazzare, non sono certo tipo che si offende.
Quanto al direttore del giornale per il quale scrivevo, invece, giornale nel quale, lo dico a onor del vero, ho iniziato a pubblicare quelle inchieste e quegli articoli sopra le righe che mi hanno portato poi a finire a collaborare con quella radio, più per merito del suo caporedattore, ripeto, il fatto che io abbia spesso fatto tremare le vene al direttore in questione, le tante, troppe telefonate fatte col caporedattore, colui che nei fatti realmente “faceva” il giornale, telefonate ovviamente divertite, nelle quali mi veniva raccontato dei tremori, i malori, le maledizioni per quel mio non essere mai diplomatico, di più, per il mio essere ostico e fastidioso in maniera compiaciuta, attestano che magari non sarò mai stato da lui considerato matto, questo tenderei a escluderlo, ma sicuramente sono stato considerato una rogna difficile da gestire, uno di quelli che portano numeri, nello specifico numeri giganteschi, ma che per contro rovinano rapporti anche di anni, minano progetti in divenire, insomma, uno che è meglio perderlo che trovarlo.
Prova ne è che, nel momento in cui il direttore ha lasciato il giornale in questione per approdare in posizione sempre di rilievo a un altro, non ci ha pensato un secondo a chiamarmi, per altro consapevole che il nuovo direttore ci avrebbe messo un nanosecondo a liberarsi di me, come puntualmente avvenuto, assai più interessato a consolidare i suoi rapporti all’interno di certe lobby e potentati più che a fare numeri strabilianti in rete, numeri che in effetti non hanno più visto neanche col binocolo.
Ripeto, meglio perdermi che trovarmi, deve aver pensato. E in effetti mi ha perso.
Quello che l’editore radiofonico non ha detto al direttore del giornale per il quale scrivevo ai tempi, immagino, è che seppur considerandomi matto, il mio essere una sorta di kamikaze del tutto disinteressato a intrattenere rapporti coi potentati, o meglio, rapporti di amicizia coi potentati, perché essere visibili e letti, anche se sei considerato matto, ti porta invece proprio a intrattenere rapporti, certo non serenissimi, coi potentati, muso duro contro muso duro, nuca contro nuca alla Ibrahimovi e Lukaku, questo mio sganciare bombe a mano in giro un po’ come l’Antonio Banderas di Desperado, le fiamme e le esplosioni che colorano il panorama alle mie spalle mentre esco dal palazzo che sta per crollare, ha sicuramente contribuito non poco a movimentare il sistema, la scena, a movimentare il rock’n’roll, fatto che, nel momento in cui lui, uomo di indubbio potere, ma non sempre benvoluto, si è trovato a essere messo da parte, gli ha reso la vita magari non più semplice, ma quantomeno più dolce, il nemico del mio nemico è mio amico.
Del resto il rapporto che abbiamo intrattenuto negli anni è sempre stato così, una stretta di mano e via, “alla vecchia”, al primo giramento di palle, da una parte come dall’altra, un taglio netto e non ci si vede più.
Anche per questo, immagino, io sono quello matto. Perché dopo essermi fatto largo, con una visibilità per me e anche per quella stessa radio, almeno per il mio ruolo, senza precedenti, e vi giuro che praticamente tutti quelli che fanno il mio mestiere o un mestiere vicino al mio ambiva e ambisce a quel ruolo, dopo essermi fatto largo e aver conquistato una visibilità senza precedenti, ho staccato la spina senza neanche passare dal via, non mi sono semplicemente più presentato, come una rockstar bizzosa, senza neanche rispondere al telefono, solo perché mi era parso di ravvisare che mi si facesse passare come parte di quel sistema, uno di famiglia, appunto.
Non rispondere a quel numero da cui tanti vorrebbero essere chiamati, lo dico non senza una punta di divertimento, è davvero tanta roba, come lo è poi ritornare, salvo aver ribadito l’ingestibilità, la volontà di continuare a farmi i fatti miei, il poter portare ospiti fuori dai loro passaggi radiofonici, il parlare male degli artisti a loro vicini, del loro stesso gruppo, volendo anche della radio stessa.
Un rapporto ricucito, come tra vecchi combattenti, che poi si è consolidato in seguito a un paio delle mie inchieste piuttosto devastanti per altri attori di quel sistema, di nuovo sotto i riflettori di quella radio, poi di nuovo la spina staccata, sempre da me, una discontinuità bizzosa che in realtà era un calcolo scientifico, la radio non mi ha mai aiutato a trovare lettori, e col mio aver cominciato a passare in tv, complice Striscia la Notizia e prima ancora Dagospia, anche il mio essere mainstream, nel senso di riconoscibile per strada, quindi in qualche modo popolare e di conseguenza intoccabile, difficile fare del male a chi è sotto lo sguardo di tutti, mettiamoci pure aver dichiarato pubblicamente di avere anche altri amici dalle spalle larghe, perché quando si va per risse è sempre bene far intendere che si è soli ma non proprio soli soli, non è stato più qualcosa che la radio poteva darmi, meglio staccare per riprendere una tantum, con progetti mirati.
Rinunciare alla visibilità, quindi, e alla pecunia, perché si lavora per quello, in fondo, ha sicuramente fatto di me “quello matto”, credo che direbbe la stessa cosa anche una Maria De Filippi, ancora ho in mente la voce piccata del suo collaboratore Settepani, ex collaboratore ormai, quando gli ho detto che non intendevo andare a insegnare alla scuola di Amici, anzi, quando gli ho detto che avevo da fare, in effetti mi ha chiamato mentre stavo andando in auto a Sanremo, Dio quanto è brutta quell’autostrada, tutti ponti e gallerie. Sono matto, lasciamoglielo credere.
Nei fatti non ho mai considerato la follia così disdicevole, non almeno quella che contempla l’essere irregolari, immagino che il mondo delle psicosi e delle patologie mentali sia argomento troppo serio da poter essere trattato da queste parti, per cui essere definito “matto” mi è parsa una gran bella cosa, un fatto degno di essere raccontato.
D’altro canto, se nello scontro tra apocalittici e integrati io fossi uno di quelli che ambisce a stare tra i secondi, immagino, indosserei maglioncini color pastello, occhialetti da professorino, esibirei tagli di capelli ordinati e alla moda, la barba ben fatta, magari indosserei anche le Hogan, chi deve capire capisca, invece sono quello coi codini alla Frank Zappa e gli occhialoni rosa, con le t-shirt di gruppi hardcore e le felpe delle squadre di calcio, quello bizzarro, o meglio, quello matto.
E questo fatto di essere quello “matto”, irregolare, ingestibile, trova uno spazio preciso anche dentro quello che faccio, è ovvio, non potrebbe che essere così. La libertà di cui parlavo prima presa alla lettera, applicata all’interno della propria poetica, anche un po’ abusandone, la stranezza elevata al ruolo di marchio di fabbrica, di vezzo, di tic sottolineato, i difetti si possono nascondere o usare come scudo, non che io consideri la stranezza un difetto, tutt’altro. Quell’idea che, siccome me lo lasciano fare, proprio come si fa coi matti, lo posso in effetti fare e lo faccio, scrivo pezzi lunghissimi, senza un apparente nesso logico, fottendomene delle strategie SEO, questo quando scrivo, mentre quando faccio interviste, beh, anche peggio, le faccio in costume, alle terme, o in condizioni di estremo relax, a tavola, bevendo vino in abbondanza, o seduti su un van trasformato in studio tv, ficcato dentro un letto, in una sauna, in una piscina, a mollo nell’acqua, suonando strumenti giocattolo, cantando io le canzoni agli artisti, niente di convenzionale, le convenzioni le lascio agli integrati, questo ovviamente a guardare il mare solo concentrandosi sul pelo dell’acqua, la superficie, lungi da me star qui a raccontarne le profondità.
Me lo lasciano fare e lo faccio, forte della firma, dello storico che mi porto alle spalle, e questa cosa qui, essere quello che fa cose irregolari, anomale, sopra le righe, che fa cose irregolari, anomale e sopra le righe perché glielo lasciano fare, mi rende ulteriormente irregolare, anomalo e sopra le righe, ancora più strano, ancora più matto, rafforzando la firma e contribuendo a allargare il mio storico.
Non che sia un obbligo morale muoversi fuori dalle strade già tracciate, intendiamoci, a volte è bello anche sentirsi normali, stare in mezzo agli altri, ma di fatto essere altrove diventa parte integrante dell’essere me stesso, questo ci si aspetta, e perché mai dovrei deludere le aspettative andando per altro a seguire dei canoni che mi fanno letteralmente cagare?
Certo, la routine e la noia è sempre lì, dietro l’angolo, ma basta semplicemente azzardare nuove strade, sempre alternative al corso principale, mica penserete che si possa essere strani sempre alla stessa maniera?
Curioso, certo, che lo slogan della radio dell’editore che mi ha o avrebbe definito matto inneggi proprio alla normalità, ma credo che tra normalità e banalità, converrete, c’è una bella differenza, se volevo fare un lavoro normale non avrei certo scelto di farne uno che fatico ancora oggi a spiegare in meno di cinque minuti, parlando fitto fitto.
Si apre però un dubbio amletico, di quelli da porsi tenendo un teschio in mano occhieggiando il panorama scandinavo da fuori dalla finestra, come non far diventare l’essere matto, sopra le righe, fuori dagli schemi, qualcosa di routinario? Come, cioè, continuare a sorprendersi e a sorprendere gli altri dovendo, sottolineo dovendo, non solo volendo, sempre spostare più in là l’asticella?
Ora, per me sarebbe anche troppo facile, proprio oggi che comincia il Festival della Canzone Italiana di Sanremo, edizione settantuno, ovvero sia, edizione Covid, tirare in ballo Achille Lauro. Talmente facile che, magari, qualcuno ci avrà già pensato di suo. Potrei dire che lui da tempo ha deciso di aderire anima e corpo a questa routine dell’essere sopra le righe e fuori dagli schemi, dello stupire per lo stupire, come ingabbiato nell’essere uno che si vende come fuori da ogni gabbia, ma converrete con me che c’è un problema neanche piccolo a riguardo. E il problema è che io ho una forma piuttosto acuita di autostima, al limite del narcisismo patologico, dell’egoriferimento spinto. Lo sapete già, non vi devo convincere di nulla. E questo aspetto del mio carattere, questa mia peculiarità, anche su questo immagino converrete in massa, come raramente mi capita di ottenere con le mie parole, è assolutamente inconciliabile con un qualsiasi paragone con Achille Lauro. Anche l’idea che qualcuno di voi ci abbia magari pensato, incautamente e inconsapevolmente, mi ferisce. Perché lì di “matto” non c’è proprio nulla, nessuna eccentricità, nessuna difficoltà, anche, incapacità a stare dentro schemi prefissati e canonizzati, solo la volontà di porsi sotto i riflettori giocando la carta dell’artistoide, di quello “pazzo pazzo” che fa cose strane, in totale assenza, però, di contenuti, senza, cioè, che l’apparire coincida con l’essere, la forma con la sostanza.
Ora, non vorrei, dopo aver citato in maniera pop e fugace Socrate andare a contraddire in poche parole Aristotele, perché mi sembra davvero eccessivo farlo e soprattutto mi sembra eccessivo farlo dopo aver tirato in ballo Achille Lauro, ma siccome sono fondamentalmente convinto che la forma sia sostanza, ma che la forma non sempre sia forma, spesso e malvolentieri si tratta di emulazione di forme e sostanze altrui, altre volte abusi di sostanze, capitolo però a parte, ribadisco quanto detto: Achille Lauro non è un “matto”, è un paraculo che, capito quanto il nostro sia un paese ordinario e ignorante, ha provato, non saprei dire con successo reale, cioè destinato a procrastinarsi nel tempo, o momentaneo, effimero, a vendersi come quello “fuori”. L’antiroutinarietà che si fa routine calcificata e imbalsamata, l’apocalittico che finisce per essere il più integrato degli integrati.
“… sono fondamentalmente convinto che la forma sia sostanza, ma che la forma non sempre sia forma, spesso e malvolentieri si tratta di emulazione di forme e sostanze altrui, altre volte abusi di sostanze… ”
Genio incontrastato.👏😃