Da quando ha debuttato su Netflix, inizialmente un po’ in sordina prima della promozione in tv e col tam tam sui social, SanPa ha fatto deflagrare il dibattito pubblico intorno ad una questione che sembrava completamente rimossa dalla memoria collettiva: forse proprio per questo l’impatto della serie è stato così sorprendente, per la capacità di riaccendere domande scomode su una vicenda sulla quale tutta Italia aveva già praticato all’epoca il suo sport preferito, dividersi fra favorevoli e contrari, accusatori e difensori.
Ma a prescindere dall’opinione che ognuno si farà delle vicende raccontate in SanPa – qui non entriamo nel merito del giudizio sul protagonista Vincenzo Muccioli, sulla cui personalità debordante ruotano i principali interrogativi della docu-serie – l’operazione ha avuto questo effetto dirompente soprattutto perché è un grande e riuscito esperimento di narrativa d’inchiesta in un formato quasi inedito per l’Italia. Abituati come siamo alle fiction popolari, alle soap, alle serie televisive un po’ all’italiana e ai rifacimenti di format stranieri, quello della docu-serie è un terreno ancora poco esplorato nel nostro Paese (SanPa è la prima prodotta in Italia da Netflix).
Eppure SanPa dimostra come ci sia un’enormità di materiale interessante nella nostra Storia contemporanea che potrebbe essere sviscerato a fondo rinunciando all’aspetto fictional e puntando sui fatti, sul loro peso politico, sul loro effetto sulla società. Storie che spesso hanno una trama intrinseca più coinvolgente di qualsiasi opera di fantasia. È proprio questo il caso di SanPa, che ha come scopo ricostruire l’esperienza della comunità di San Patrignano dalla sua nascita nel 1978 fino al declino e alla morte del suo fondatore, una parabola violenta che ruota intorno al carisma e all’ambiguità di Vincenzo Muccioli. Con oltre 180 ore di riprese, decine di testimonianze e un anno intero di lavoro al montaggio – che è la vera forza di SanPa – la regista Cosima Spender e gli autori Carlo Gabardini, Gianluca Neri, Paolo Bernardelli hanno realizzato un enorme racconto fattuale partendo da una tesi che è esplicitata più volte nel corso dei 5 episodi: “Quanto male si è disposti a fare in nome del bene?“. Questo è il filo conduttore della docu-serie, che ruota tutta intorno alla leadership e all’ego strabordante di Muccioli, alla sua capacità di apparire talvolta un santo e talaltra un criminale, alla sua abilità di polarizzare il dibattito pubblico, ma soprattutto di mettere in piedi una creatura che ad un certo punto è diventata talmente enorme e potente da fagocitarlo.
Il rischio insito in questa ricerca metodica e insistente delle ombre di Muccioli era che il racconto stesso fosse ostaggio di questo personaggio, ma la presenza di più narratori con opinioni diverse – compreso il figlio di Muccioli e il suo “soldato” Red Ronnie – riesce a proporre più letture. Lo fa muovendosi in modo obliquo tra tante verità e non sposando un’unica direzione. Ci si muove a zig zag tra la bontà delle delle intenzioni e l’atrocità dei cosiddetti metodi educativi, si oscilla tra la comprensione del dovere morale di risolvere la piaga sociale dell’eroina e l’inammissibilità degli episodi di violenza documentati in sede processuale, si sposa il dolore straziante e palpabile dei genitori di ragazzi tossicodipendenti ma si pone anche la questione di quanto sia lecito delegare ad un privato la missione di salvare le vite di migliaia di persone (disponendo arbitrariamente della loro libertà, talvolta negandogliela in modo atroce).
Il segreto di questo successo è nell’operazione incredibile di montaggio tra testimonianze d’oggi, materiali di archivio, immagini acquisite agli atti dei processi, elementi preziosi che come tanti fili tessono la trama di una tela raffinata: SanPa è un documentario, certo, ma è un documentario che si fa serie perché ha una sua trama e un suo intreccio, un inizio, un corpo centrale e una fine che sono perfettamente congegnati per assomigliare ad una delle grandi narrazioni seriali di questi ultimi anni basate su fatti veri. SanPa ha la forza dell’inchiesta che sta alla base di miniserie come Chernobyl e il fascino della costruzione di personaggi magnetici che ha fatto grande l’epopea da più stagioni di Narcos: ogni episodio si chiude con un colpo di scena incredibile e crea il bisogno di saperne di più, di guardare l’episodio successivo o in alternativa di connettersi ad Internet e cercare informazioni su ciò che si è appena visto. La struttura narrativa (certamente ispirata a Wild Wild Country della stessa Netflix) finisce, in certi momenti, per essere quasi prevalente sui fatti raccontati, sulla sostanza stessa dell’inchiesta, ed è anche in questo che risiede l’innegabile fascino di SanPa, che a tratti sembra una sorta di Narcos dell’antidroga. Questo è un rischio che si è voluto correre consapevolmente, in nome dell’appeal del prodotto, sin dai primi minuti del primo episodio, quando diventa chiaro immediatamente che questo racconto – si perdoni il così infelice gioco di parole visti i temi trattati – genera subito dipendenza. Bastano pochi minuti e l’ascolto della sigla di SanPa – molto in stile Narcos o meglio El Chapo, visto che il suo compositore Eduardo Aram ha creato la colonna sonora originale della serie dedicata a Guzman – per capire di essere entrati in un mondo dal quale si vorrà uscire solo dopo averne saputo il più possibile.
Chiaramente l’intento degli autori è quello di scavare più a fondo possibile nell’ambiguità del personaggio di Muccioli, che diventa l’oggetto principale degli interrogativi più atroci sollecitati dalla serie, ma la capacità di SanPa è di far cambiare idea allo spettatore più e più volte nel corso del racconto e soprattutto di restare a lungo nella memoria di chi la guarda. Molto probabilmente chi l’ha vista si ritroverà non solo ad aver cambiato più volte la propria impressione nel momento stesso della visione, ma lo farà anche nei giorni successivi, conquistando solo dopo un certo periodo di tempo il necessario distacco per valutare la storia, il contesto, i fatti e le persone in modo più obiettivo.
Più di Muccioli e della sua straordinaria opera a San Patrignano – straordinaria nel bene e nel male – la serie è un ritratto spietato dell’Italia degli anni ’70 e ’80: bigotta, retrograda, impaurita, prigioniera di una mentalità a tratti clerico-fascista che non poteva certo avere le chiavi di lettura utili per interpretare un fenomeno devastante come il dilagare dell’eroina. Al di là di ogni giudizio sulla comunità e il suo leader, SanPa è un enorme atto d’accusa nei confronti di uno Stato completamente assente, ignorante in materia, che preferisce delegare ad altri, senza regolamentazione e senza risorse, la risoluzione di un problema al quale non è in grado di far fronte. Nella lotta impari alla tossicodipendenza generata principalmente dall’eroina e dalla cocaina in quel periodo storico, all’emersione del gigantismo di Muccioli fa da contraltare una politica minuscola che non ha gli strumenti e la volontà di riempire un vulnus vergognoso, a cui mette una pezza la concezione quasi militaresca della San Patrignano di Muccioli. La docu-serie ha la capacità di rendere perfettamente chiaro il contesto nel quale quell’esperienza è nata, cresciuta e alla fine ha divorato il suo stesso creatore. Un giudizio razionale impone di non applicare i parametri di oggi – il rispetto dei diritti civili, la concezione del tossicodipendente, l’idea di riabilitazione, il progresso medico scientifico sull’argomento – ad un’esperienza maturata in un contesto così profondamente diverso, in cui nessuno, Muccioli in primis, aveva idea di come affrontare i demoni che stavano divorando un’intera generazione.
Tra le pecche della serie ci sono alcuni punti lasciati cadere in modo superficiale. Nell’ultimo episodio si accenna ad esempio a potenziali stupri avvenuti nei reparti punitivi di San Patrignano ma si tratta di un breve cenno a qualcosa di molto grave che non viene approfondito e che viene liquidato proprio con le parole di Muccioli, che sostenne che se una persona vuole sottrarsi ad una violenza può farlo (l’esempio della penna che non riesce ad entrare in un anello se entrambi si muovono è una dichiarazione terrificante che gli autori hanno cercato a lungo di recuperare tra gli archivi dell’epoca).
In definitiva Sanpa è una serie molto parlata, quasi tutto ciò che viene raccontato esce dalla bocca di persone che hanno vissuto quell’esperienza da ospiti o da commentatori esterni, la scelta di non avere una voce narrante permette di restituire un’immagine più veritiera del vissuto dei protagonisti, lasciando che fossero le persone a mettere in ordine ricordi e riflessioni. Non tutte le testimonianze hanno lo stesso peso e sicuramente non tutte lo stesso valore: l’ambiguità crescente del racconto di Walter Delogu, autista di Muccioli, lascia un senso di non detto che fa rimettere in discussione il suo contributo alla serie dall’inizio alla fine (e non bastano certo le parole della figlia Andrea a farne un “eroe”). Mentre la testimonianza di Fabio Cantelli è il vero asse portante di questa narrazione: un racconto straziante, per quanto lucido e profondo, di una persona che ha attraversato diverse fasi della sua vita nella comunità di San Patrignano, passato da tossicodipendente a responsabile delle pubbliche relazioni attraversando drammi umani raccontati con una capacità di analisi unica e per questo molto toccante. La sua conclusione nel finale della serie – “Sono vivo grazie a San Patrignano e nonostante San Patrignano“- racchiude l’essenza di ciò che più resta nello spettatore, e cioè l’idea che bene e male abbiano convissuto in un’esperienza fuori dal normale, fuori dai perimetri della legge, della giustizia ordinaria, dello Stato perché questo non c’era.
Nel sollevare quesiti che interrogano l’etica, la morale, il senso di società e di collettività, SanPa fa ciò che ogni inchiesta giornalistica e anche opera di intrattenimento dovrebbe fare: coltivare la nobile arte del dubbio, instillarlo senza dare risposte precostituite, stimolarlo senza morbosità, sfidare il pubblico a mettere in discussione continuamente le proprie stesse convinzioni.