Antebellum, l’America, il razzismo e il passato che non passa

Dal 14 dicembre su Amazon Prime Video l’opera prima di Gerrard Bush e Christopher Renz, con Janelle Monáe. Tra film storico, thriller e horror, un racconto che parla di discriminazione in un gioco di specchi tra passato e presente

Antebellum

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Antebellum è il titolo evocativo del film d’esordio della coppia di registi Gerrard Bush e Christopher Renz. Il primo è nero, il secondo bianco (il colore della pelle è un dato essenziale in questo film), provengono dalla pubblicità – hanno lavorato per Vogue e Porsche – e allo stesso tempo sono vicini al movimento Black Lives Matter, precedentemente autori di un corto, Against The Wall, che denunciava le brutalità della polizia. La pellicola, dal 14 dicembre in esclusiva su Amazon Prime Video, ha uno stile ibrido che mescola i generi, insieme film storico sulla schiavitù, thriller psicologico, horror allegorico e politico alla Jordan Peele (i cui Get Out e Noi costituiscono il punto di riferimento più diretto).

Si parte con una citazione da William Faulkner: “Il passato non muore mai. Non è neanche passato“. Lo svolgimento del racconto espliciterà questa premessa. L’inizio è folgorante: un lungo piano sequenza, ambientato in Louisiana presumibilmente negli anni della Guerra civile americana, in cui si svela il profilo di una piantagione, conducendo dalla villa in stile coloniale dei padroni bianchi sino alle stamberghe in cui sono ammassati gli schiavi neri, con il doloroso contorno di angherie, soprusi, violenze gratuite dei primi a danno dei secondi.

Con lodevole economia espressiva, in pochi minuti e senza quasi bisogno di dialoghi, Antebellum ha già esaurientemente spiegato le dinamiche di un mondo incardinato sul razzismo. Successivamente facciamo la conoscenza della protagonista Eden (Janelle Monáe), schiava torturata, marchiata a fuoco come un animale, violentata ripetutamente dal padrone bianco, e purtuttavia ostinatamente intenzionata a organizzare la fuga. Una sera s’addormenta dopo l’ennesimo abuso accanto al suo stupratore: al risveglio è nel letto di una bella casa dei nostri giorni, con al suo fianco l’amorevole marito e una bellissima bambina.

Al posto di Eden c’è Veronica, sociologa e attivista per i diritti della gente di colore che ha scritto un bestseller dal titolo La Caduta Dell’Indole Mite, in cui analizza le relazioni sussistenti tra razza, classe sociale e genere, invitando la comunità di colore ad anteporre il principio della piena liberazione a quello più compromissorio dell’integrazione. Veronica, guarda caso, è in partenza proprio per la Louisiana, per una delle sue conferenze.

Da sinistra, i registi Christopher Renz e Gerrard Bush

Che relazione c’è tra due storie separate da almeno un secolo e mezzo? E che rapporto c’è tra Eden e Veronica, che hanno lo stesso volto di Janelle Monáe? Antebellum ruota integralmente intorno a questi due interrogativi, la cui soluzione è in un colpo di scena in cui è riposto tutto il senso del film. L’importante è non dimenticare la frase di Faulkner sul passato che non passa. Un assunto che, in rapporto al tema della discriminazione razziale, sottolinea quindi come nulla o quasi sia cambiato, anche al presente, nella relazione tra bianchi e neri in un paese eternamente razzista.

Per denunciare l’equivalenza tra passato e presente Antebellum utilizza un dispositivo che punta su di una allegoria letterale – il passato è il presente –, talmente brutale da divenire didascalica. Questo meccanismo, che evita sottigliezze ed eufemismi, è anche il punto di forza del film. Infatti, quando la Louisiana della Guerra civile, coi suoi aguzzini bianchi e gli schiavi martoriati, si trasforma senza soluzione di continuità né salti spaziotemporali nella Louisiana di oggi, in cui i neri sono ancora terrorizzati in mezzo a villeggianti redneck (probabili elettori di Trump?) che espongono orgogliosamente la famigerata bandiera confederata, l’effetto per lo spettatore è scioccante, e nel suo schematismo indubbiamente efficace.

Il limite di Antebellum è che questo schematismo fagocita l’intero racconto, a partire dalle protagoniste Eden e Veronica, superficialmente delineate, più funzioni narrative che autentici personaggi. Tra le due c’è uno scarto che corrisponde, seguendo la teoria della saggista sull’indole mite, alla differenza tra integrazione e liberazione, in cui se Eden è la donna che subisce fieramente ma in silenzio, Veronica invece reagisce con spirito ribelle e vendicativo. Ma, appunto, le due figure sono quasi agli antipodi e rozzamente, sommariamente sbozzate.

Tutto Antebellum è sotto lo scacco dello schematismo: l’America dell’epoca dello schiavismo è messa in scena come fossimo in un bignami esplicativo e riassuntivo di tutte le efferatezze possibili. Dall’altro lato invece, passando all’oggi, la casa di Veronica è perfetta, linda e asettica come sbucata fuori da un numero di Architectural Digest. Forse era questo l’obiettivo dei registi: impiegare la stessa estetica fasulla e di maniera di quei film che parlano di afroamericani solo attraverso stereotipi, però calcando talmente la mano – si pensi al personaggio dell’amica di Veronica, Dawn (Gabourey Sidibe), che pare sbucato fuori da una brutta rom-com – da mettere in crisi il dispositivo e svelarne tutta l’ipocrisia. Intenzione lodevole, per carità. Purtroppo Antebellum finisce per naufragare per eccesso di identificazione, per uno stile che abusa degli espedienti visivi più consunti da cui vorrebbe prendere le distanze – a partire dagli insopportabili ralenti  – e che, stringi stringi, non riesce a creare un personaggio credibile che sia uno.