Noi racconta l’agghiacciante odissea vissuta da una famiglia benestante di colore durante le vacanze estive. Ma è evidente che, ampliando la prospettiva oltre il nucleo familiare di cui racconta la vicenda, il nuovo film del regista afroamericano Jordan Peele, già premio Oscar con l’esordio Get Out, possiede un’ambizione allegorica e politica più vasta. Chiara sin dal titolo, che in inglese è “Us”, che vuol dire sia “noi” che “United States”. E sono gli Stati Uniti nella loro interezza ad andare in scena nel prologo ambientato nel 1986, che racconta il famoso Hands across America, un evento di beneficenza che coinvolse milioni di americani, i quali formarono una lunghissima catena umana attraverso tutto il paese per raccogliere fondi per i senzatetto.
Una nazione raccolta in un lunghissimo abbraccio collettivo che si distende da Est a Ovest: impossibile pensare a un’immagine più idilliaca. Ma sotto questa superficie zuccherosa e autopubblicitaria s’agitano ben altre inquietudini. E qui parte la vera storia di Noi, simile nel meccanismo narrativo al precedente Get Out, che dissezionava la facciata della borghesia bianca e progressista, a parole pronta ad accogliere a braccia aperte il fidanzato nero della figlia, e invece ideologicamente e sadicamente razzista.
Noi estremizza persino il discorso, allargando lo sguardo dalla comunità bianca alle società americana tutta. Qual è la storia del film? Nel 1986 durante le vacanze la piccola Adelaide entra nella casa stregata del parco giochi e incontra un suo doppio, una bimba uguale a lei, ricavandone un trauma che la segna a lungo. Passati al giorno d’oggi, Adelaide (Lupita Nyong’o) insieme al marito (Winton Duke) e ai due figli torna per l’estate sui luoghi dell’infanzia, ancora turbata da quell’antica esperienza. Una sera quattro figure vestite di rosso invadono la casa dei Wilson: fisicamente sono le loro copie esatte, ma per il resto sono creature sinistre, minacciose. Chi sono? “Siamo americani”, risponde la donna, l’unica in grado di esprimersi, mentre gli altri si producono in suoni animaleschi. Il loro obiettivo è eliminare i Wilson. I quali si difendono come possono, in un crescendo che passa dal thriller all’horror (ma mai splatter). A essere sotto attacco però non è solo la loro famiglia: i doppi sono dappertutto e ovunque uccidono, senza far distinzioni tra bianchi e neri.
Qui Noi si trasforma in un’autentica allegoria, anche con accenti biblici – la presenza del passo di Geremia 11.11: “Così parla l’Eterno: ecco, io faccio venir su loro una calamità, alla quale non potranno sfuggire. Essi grideranno a me, ma io non li ascolterò” – che arricchiscono il racconto di sfumature quasi metafisiche. E fino a quando la vicenda è mantenuta sul piano dell’enigma, la violenza che fa morti in ogni dove suona quasi come una punizione che l’umanità intera subisce per una colpa originaria da espiare nel sangue. Quando invece nel finale gli accadimenti trovano una spiegazione – irrazionale e piuttosto faticosa – Noi prende la forma d’un racconto fantascientifico e fantapolitico, nel quale l’imperscrutabile Male assoluto viene riportato a una dimensione più comprensibile, e meno inquietante.
Noi soffre in parte della distanza tra le intenzioni di partenza e la costruzione di una progressione narrativa non sempre originalissima, che oltretutto prende in prestito suggestioni da classici riconosciuti: le creature come doppi apparentemente senza emozioni vengono da L’invasione degli ultracorpi, certe scenografie apocalittiche rimandano a Il corridoio della paura, l’uso in chiave politico dell’horror è lo stesso degli zombi di Romero. Ma l’impaginazione visiva e l’attenzione ai dettagli (il rosso dei vestiti, i rituali della violenza, le forbici, i conigli) recano la firma d’uno stile autonomo. E resta su tutto, il lucido radicalismo di un film che prende di petto il sogno americano e lo spappola dentro un racconto di atmosfere e ambiguità disturbanti, che lasciano lo spettatore in preda a interrogativi tutt’altro che rasserenanti.
Guardandosi attraverso lo specchio, gli eroi si scoprono, letteralmente, uguali ai loro persecutori. E così distinguere tra buoni e cattivi diventa impossibile. Certo, i Wilson sono più civilizzati dei propri doppi, ma via via che la storia procede, anche loro si dimostrano capaci di un’aggressività incontrollabile, tanto gli adulti che i ragazzini. È ovvio, reagiscono così per salvarsi la vita e per amore della famiglia. Ma in verità sembra lo facciano più per difendere la propria identità, il proprio status. Il mondo di sopra dei facoltosi e quello sotterraneo dei doppi espropriati si contendono senza esclusione di colpi il miraggio del benessere. E così prima che di lotta per la vita, o di discriminazione razziale, Noi parla, evidentemente, di lotta di classe.