Doveva capitare, prima o poi.
Era inevitabile.
È successo oggi.
Senza un motivo scatenante. O meglio, siamo precisi, senza un motivo scatenante che non fosse presente anche ieri, e l’altro ieri. Siamo alla fine della terza settimana di vita claustrale. Vita claustrale che nel mentre si è estesa a tutta l’Italia. Anche se la Lombardia, vivo a Milano, è ovviamente tutt’ora la zona più colpita dal Coronavirus, quella più disastrata.
Non sono mai stato per il “mal comune, mezzo gaudio”. Anzi, ho sempre ritenuto che il mal comune sia gravissimo, fotografi, cioè, una condizione di merda generalizzata. Preferirei essere il solo che sta male, circondato da chi mi può accudire, può prendersi cura di me, può fare al posto mio le cose che io evidentemente non posso al momento fare. E in tutti i casi sapere che anche gli altri stanno male non allevia certo il mio star male, la compassione, benedetta, mi è assai cara e chiara, non funziona così, la solidarietà tra sfigati non serve a nulla.
Quindi sapere che tutta l’Italia, di colpo, è bloccata non mi ha sicuramente sollevato l’animo, è di questo che andrò a parlarvi, oggi, né mi ha indotto a pensare che finalmente ne usciremo fuori. Siamo un popolo di idioti, lo abbiamo detto, e le semirestrizioni non ci servono a molto. Col che non voglio certo dire che dovrebbero recluderci tutti, tipo Cina.
Serve avvedutezza, e proprio l’assenza di questa, da parte di un po’ tutti, ma anche da parte di chi ci guida, mi angustia. Stare chiuso in casa e saper di non poter contare su un medesimo atteggiamento da parte di tanti altri rende vano il mio essere ligio, è un fatto. Pensare che chi ci guida conta quindi sul buon senso di chi buon senso non ha dimostra che anche chi ci guida ne è privo, altro che citazioni a cazzo di Churchill.
E ora non state qui a dirmi, vorrei vedere te al posto di chi ci guida, mi girano le palle, non mettetevi a litigare con me che vi fate male, sono cintura nera di polemica.
Io non sto alla guida di un paese, non ambisco a starci, non ho gli oneri di chi ci sta, e ovviamente neanche gli onori, con tutte le sfumature del caso.
Sei finito a guidare un paese nel periodo peggiore dal dopoguerra?
Mi spiace, pensa a noi che ci siamo finiti a vivere, in quel periodo, senza neanche poter decidere se e quando uscire.
Superpoteri e superproblemi, lo diceva Stan Lee, aveva ragione.
Quindi siamo guidati da dei cialtroni, lo posso dire, lo voglio dire. Più in generale vorrei menarmi con qualcuno. Anche con uno sconosciuto, in strada. Ma non si può scendere in strada. Serve l’autocertificazione che indichi le comprovate motivazioni di necessità per cui si è in strada, dubito che dire che si è in strada per massacrarsi con sconosciuti verrebbe approvato da un ipotetico tutore della legge.
Non si può neanche andare nel retro di un bar, o in una garage, tipo Fight Club, a prendersi a mazzate con sconosciuti a torso nudo, per sentirsi vivi. Non mi sento vivissimo, oggi. Non perché stia male, sono sano, ho cinquant’anni, sono anche a dieta da oltre un anno, ho rimesso a posto il colesterolo e i Gamma GT. Ma non mi sento vivissimo. E non mi ci sento perché ho la sensazione, sono tre settimane che viviamo in casa, che non tutto sia esattamente eseguito a regola d’arte.
Non voglio parlare di politica, intendiamoci, sono per mia natura anarchico, probabilmente anche un po’ nichilista, ma vivo in questa nazione, mi adeguo alle regole, spesso sbagliate, che qualcuno ha deciso per me. Mi adeguo. Le rispetto, pur non condividendole sempre. Ma sapere che come sempre, perché è sempre così, una parte della nazione non venga presa in considerazione, e sapere che questa parte è anche piuttosto ampia, il famoso mal comune lì, a portata di mano, mi angoscia. Non ho sentito mai nominare le partite IVA, in questi giorni in cui si chiedono a tutti sacrifici, ma evidentemente a qualcuno più che a altri, non ho mai sentito parlare di lavoratori autonomi, di liberi professionisti. Ho sentito Gualtieri, il Ministro dell’Economia che suonava Bella Ciao in chiave bossanova, parlare di venticinque miliardi destinati a salvare il culo a chi si troverà in difficoltà, ma lo ho poi sentito aggiungere, ahinoi, che si chiederà la sospensione del mutuo sulla prima casa per chi perderà il lavoro, anche se Conte ha detto che “nessuno perderà il lavoro”. Chiedo per un amico, come dicono quelli giovani sui social, ma una partita IVA, un lavoratore autonomo, un libero professionista come può mai pensare di non pagare la rata del mutuo sulla prima casa se il suo lavoro neanche viene preso in considerazione. Tutta la filiera del mondo dello spettacolo non sta lavorando, ma nessuno, o quasi, ha tecnicamente perso il lavoro. Lavori a progetti, a data, a eventi, che lavoro potrai mai dimostrare di aver perso? Non puoi pagare il mutuo, cazzi tuoi?
Sono angosciato, come tutti. Ma quando mi angoscio mi scatta l’animale. Divento nichilista, violento, rissaiolo. Fossi in strada mi prenderei a mazzate con sconosciuti, al primo colpo di clackson scenderei dalla macchina, farei cazzate. Sono però in casa, e scrivo.
Scusate lo sfogo.
Non dovevo.
Ma prima o poi doveva capitare. Era inevitabile.
È capitato oggi, mi girano i coglioni. Non si può mica pensare che, in questa assurda situazione di isolamento e convivenza forzata, e non azzardatevi a fare battutine del genere “non siete capaci di stare in casa coi vostri figli, cosa li avete messi al mondo a fare?”, che se non era per noi che i figli li abbiamo messi al mondo le vostre pensioni del cazzo ve le pagava Casper il fantasmino, coglioni dediti a aperitivi e palestre, ogni giorno sia dedicato esclusivamente alla malinconia e ai bei pensieri. Quelli ve li ho regalati nei giorni scorsi, oggi il convento passa la rabbia, la violenza, la distruzione.
Nichilismo e barbarie, signori miei, questo il menu del giorno. Anche perché voi leggete questo diario oggi, ma magari io l’ho scritto nei giorni scorsi, magari proprio nella notte dopo il blocco totale delle attività imposto da Conte, che blocco totale poi non è affatto, vallo a sapere.
Poi, e che cazzo, io sono quello degli articoli sul buco del culo dei cavalli, quello che scrive una recensione della Pausini e la chiama “Potevi intitolarlo ‘A cazzo di cane’”, sarò padrone di dar sfogo a un po’ di sana devastazione punk, almeno dopo venti giorni di diario?
Ho fin qui tenuto botta, auguri Liga per gli appena festeggiati sessant’anni, oggi per dirla con Pino Daniele, mi devo sfogare.
Il fatto è che siamo sempre chiusi dentro casa, non c’è certo bisogno che sia io a ricordarvelo. Come me ci siete anche voi, chi più chi meno. Gli spazi, non mi lamento nello specifico di casa mia, farei peccato, che si restringono, l’aria che manca. Dicevo prima che sono a dieta da oltre un anno. Quindici mesi, per la precisione, con oltre dodici chili persi e poi mantenuti. Ecco, per dire, per mantenere in essere questo mio nuovo peso devo camminare tutti i giorni, almeno diecimila passi, possibilmente di più. In casa come faccio? Cammino molto mentre parlo, chi mi ha visto al telefono ben lo sa. A volte mi capita di fare anche qualche chilometro in casa, parlando al telefono. Ma questi sono giorni di non lavoro, non sto al telefono, non parlo, non cammino. Ingrasserò, e come diceva giorni fa la cantautrice Silvia Conti su Facebook, alla fine di tutto questo saremo tutti talmente grassi che non potremo abbracciarci comunque. Fanculo.
Siamo tutti chiusi dentro casa, e abbiamo un minimo conforto dalla televisione, esattamente come tutti coloro che guardavamo con pietà, poveri sfigati a rifugiarsi nella tv. Da lì passano anche tanti motivi di allarme, è ovvio, e di giramenti di coglioni, è lì che abbiamo sentito straparlare tanti politici, virologi improvvisati, ministri che non sanno cosa dicono, ma ci sono le serie TV, Dio salvi gli autori e gli sceneggiatori, e questo è sì di conforto. Di conforto e di grande aiuto, non sto parlando di aiuto morale, intendiamoci, ma proprio di aiuto pratico, pragmatico.
Ho seguito tutte le puntate, tutte, di E.R e di Grey’s Anatomy, come ho seguito tutte le puntate di The Walking Dead, se la faccenda si dovesse mettere davvero male come dicono saprò bene come comportarmi e come prendermi cura della mia famiglia. Saprei saturare una ferita con ago e filo, praticare una tracheotomia con una penna Bic, probabilmente anche mettere in atto qualche piccola operazione, dopo aver sterilizzato coltelli e forchette sul fuoco. So anche, in questo The Walking Dead è una manna, cosa potrebbe succedere in casi più estremi, che dinamiche seguirà la popolazione, come riorganizzarci in comunità, che uso fare della mia amata mazza da baseball, Lucille.
Io, nello specifico, ho anche visto tutte le puntate di Sons of Anarchy, se serve saprei pure come fare una rapina, volendo, Henry Rollins santo subito, potrei anche aprire una setta. In questi giorni ci sto pensando spesso, e non è detto non lo faccia, da qui a giugno.
La Tv ci è amica, ammettiamolo, mai come in questi giorni. Certo, vanno subito abbandonati gli abbonamenti a Sky Sport e Sky Calcio, tanto non avremo né campionato, né Champions, né Europei, è evidente, ma abbiamo sempre tutte le altre opzioni, e ora Amazon Prime è anche gratis pure per chi non ha l’abbonamento, e non è il mio caso.
Ieri sera, per dire, mi sono sparato Punk su Sky Arte On Demand. Punk è un serie di documentari in quattro puntate sulla genesi, l’evoluzione e la morte, sempre che morte ci sia stata in barba al motto Punks Not Dead, del genere in questione, sotto la produzione illuminata di Iggy Pop. Iggy Pop, ovviamente, che è anche uno dei protagonisti della serie, prevalentemente basata su chiacchiere fatte sul divano dai protagonisti della scena, alternate a filmati d’epoca, soprattutto dal vivo. Una roba incredibile, avvincente, di quelle che ti fanno andare in cucina, tirare fuori la scatola di biscotti in alluminio che da tempo è diventata il box del cucito, dove cioè tua moglie tiene i rocchetti di filo, gli aghi e gli spilli, e dico tua moglie non perché io sia sessista, intendiamoci, ma solo perché nelle dinamiche della mia casa, di me parlo pur usando la seconda persona, è lei a cucire, come sono io a aggiustare tubi e guasti elettrici, a ognuno le sue competenze, ecco, una roba di quelle che ti fanno andare in cucina, tirare fuori la scatola di biscotti in alluminio che da tempo è diventata il box del cucito, prendere una spilla di quelle da balia, grandi, e infilartela sulla guancia, così, senza anestesia, senza aver neanche preso un acido, senza aver bevuto un alcolico da mesi, benedetta dieta, per il gusto di farlo, di essere nichilisti, di essere punk.
Il punk, cavoli, mai come in questi giorni rimpiango i giorni in cui lo sono stato, seppur in una mia personale lettura del genere, fuori tempo massimo, ma fuori davvero. Lettura che mi ci ha fatto avvicinare facendo un giro largo, nato nel 1969, nella provincia italiana, non poteva che essere così. Adolescente, ovviamente, ma prima appassionato di hardcore americano, nello specifico gli Hüsker Dü di Grant Hart, Bob Mould e Greg Norton, e nell’ordinarli in cui li ho citati ho già detto chiaramente da che parte stavo, ma anche quell’Henry Rollins già citato qui sopra, per altro già in video in questa prima puntata della serie in questione, e presto appassionato anche di tutto il punk, da quello americano, The Stooges, Mc5, New York Dolls, Ramones e via discorrendo, su tutti i Dead Kennedys, e quello inglese, a ritroso come Huysmans, i Damned, gli Uk Subs, i Wire, gli Stranglers, e anche i più canonici Sex Pistols e The Clash.
Ora, lo confesso, vedere lì dentro la mia televisione i volti di un Jello Biafra, in realtà nella prima puntata solo per pochi istanti, e di un Marky Ramone, alternati a quelli ben più presenti di una Jayne County, già Wayne County, Legs McNeil, Johnny Thunder, Wayne Kramer o lo stesso Iggy Pop mi ha ridato per qualche minuto la carica.
Sentire parlare di come il punk, seppur non volendosi affatto chiamare punk, avesse nelle intenzioni quello di sovvertire il potere, di portare una vera rivoluzione culturale, non a caso ammazzata in parte dell’eroina in parte dal narcisismo dei protagonisti, mi ha fatto ricordare il perché, ormai una vita fa, ho deciso che in qualche modo avrei anche io punkeggiato, lasciando presto la chitarra elettrica in cantina a favore della penna, metaforica, nei fatti la tastiera del mio PC.
Il punk, quello raccontato genialmente in questo documentario diretto da Jessie James Miller, perché non c’è niente di meglio, per raccontare una storia, di usare le voci dei diretti interessati, dei protagonisti, che si tratti di chi c’era e suonava come di chi, vedi gli alfieri della rivista Punk o lo stesso Legs McNeil, l’hanno raccontata a parole. L’urgenza iconoclasta di questo che, insieme al rap, è stato l’ultimo vero genere musicale della seconda metà del Novecento, probabilmente ultimo genere col rap in assoluto, visto che poi si è trattato quasi solo di impastare i vecchi ingredienti, vedi il grunge o la drum ‘n’ bass, un genere capace di comunicare a una generazione che arrivava dopo quella di chi aveva fatto la guerra, e che con la guerra non voleva più avere a che fare, come con le imposizioni, le regole imposte dall’alto, i canoni musicali, la rassicurante sicurezza della perfezione.
Oggi, che tutto sembra incerto, che anche solo parlare di domani suona strano, perché siamo murati vivi in una bolla che ci comprime e ci deprime, che molti dei nostri progetti sono naufragati, e se non sono naufragati sono sicuramente finiti in un surgelatore, in attesa di tempi migliori che fatichiamo a immaginare, avremmo tutti bisogno di una qualche carica sovversiva, una scossa elettrica che ci faccia dimenare sul palco come l’Iggy Pop dei primi anni degli Stooges, o che ci faccia shockare, come la Wayne County che si presentava in versione Jayne, vestita da drag queen, o che ci faccia eccitare violentemente, come la Blondie, che immagino incontreremo più con calma nelle prossime puntate. Ecco, l’idea che a breve ci sarà una seconda puntata di Punk, lì su Sky Arte, e quindi on demand, mi rasserena. Come quelle vecchie abitudini che ci facevano capire che il tempo stava passando, vedi l’andare a fare la trebbiatura a fine agosto, per chi viveva in campagna, o andare a raccogliere le amarene nel campo del contadino sotto il campetto della Lunetta, per noi “le marasche”, magari sapendo che da un momento all’altro ci sarebbe potuta piovere addosso una pioggia di sale, lui, il contadino, il padrone dell’albero di marasche, sempre pronto a spararci col fucile a pallini, a maggio, una stagione dopo l’altra, un modo per sentirci vivi, anche senza saperlo.
A guardare quelle immagini, sentire quelle canzoni, ripensando a quando sui palchi dei centri sociali della mia regione, pochi, e quelli delle sagre, un po’ di più, provavamo a dar vita alla nostra personale versione del punk e dell’hardcore, quindici anni e passa di ritardo rispetto quei nomi lì, sicuramente molto talento e successo in meno, ma la stessa carica elettrica, lo stesso entusiasmo nichilista, lo stesso spirito iconoclasta, gli Epicentro e Pentiganò, vera hit eversiva dei primi anni Novanta, per qualche istante mi è sembrato che tutto intorno a noi non fosse silenzio, immobilismo, certo aria più pulita, ma anche paura di contagiarci.
È durato poco, un’ora e poi tutto è tornato come prima. Tutto il passato è rientrato nel fonder ricordi, archiviato per sempre.
Io ho ripreso a provare quella rabbia contro la macchina che vi ho raccontato all’inizio, la voglia di picchiarmi violentemente con qualche sconosciuto, magari con uno che mi ha tagliato la strada con la macchina al primo semaforo verde, si è reimpossessata di me. Fortunatamente ero sul divano e mi sono limitato a avere la meglio su un cuscino. Purtroppo non ce l’ha fatta, il cuscino, ma non ha sofferto troppo.