La scena è questa. Ci sono i due fidanzatini che stanno facendo un picnic vicino a un laghetto. La tovaglia, d’ordinanza, è a quadri, e sulla tovaglia si trova anche il portavivande di vimini, come neanche in un quadretto di quelli che si trovano nei soggiorni dei nostri nonni, a fianco del tizio col naso grosso e il fiasco di vino. I due fidanzatini flirtano, sono lì per quello. Si guardano rapiti, si sfiorano la pelle. Sanno entrambi come andrà a finire, lo sappiamo anche noi che seguiamo la scena, ma sanno che per arrivare a quel finale tocca procedere con calma, fare tutti i passaggi giusti. In realtà noi sappiamo che il finale deve essere diverso da quello che i due ragazzi si immaginano, perché a differenza di loro, che sono i protagonisti di questa storia, nello specifico di questo incipit, sappiamo il contenitore che li ingloba. Voi che leggete non lo sapete, mi spiace, dovete prestare un po’ di pazienza. Essere la voce narrante di una storia ha questi vantaggi, sappiamo già quel che succederà. E quel che succede è che i due ragazzi si sfiorano sempre di più, gli occhi negli occhi. La ragazza è magra, ma non della magrezza di Elodie, una magrezza che non spingerebbe nessuno a dirle di mangiare di più, del resto lei non deve calcare nessun palco. Questa era gratuita, me lo dico da solo, ma sono la voce narrante di questa storia, è vero, ma anche quello che si è fatto un nome nell’ambiente entrando a gamba tesa sugli artisti che non ho in stima, fatemi guadagnare sia la pagnotta che la nomea. Comunque i due si sfiorano, e a un certo punto, forse per placare gli animi e non bruciare subito tutte le tappe decidono di approfittare del laghetto per farsi un bagno. Questa è una lettura pudica della faccenda, in realtà il ragazzo, mi sento di parlare solo per lui, pensa che una volta in acqua passare dallo sfiorarsi al toccarsi verrà più naturale, come se l’acqua lacustre, non esattamente quella contenuta in un bicchiere, quindi meno trasparente, concedesse una sorta di velo dietro il quale muoversi senza tutte quelle cautele.
I ragazzi si incamminano verso il lago, i vestiti lasciati lì, ammonticchiati vicino alla tovaglia a quadri. Lei ha un vestito intero, di quelli che coprono anche le spalle, lui un costume a pantaloncino.
Ecco, a questo punto credo sia il caso di dichiarare che tipo di racconto state leggendo, sempre che si possa legittimamente chiamare così l’incipit, seppur molto lungo, di un articolo. Questo è un racconto di quelli che, fossimo una serie tv, sarebbe dalle parti di Fox Crime, o su Rai 2 il sabato sera. Qualcosa che ha a che fare col crimine. Di più, con l’FBI, i serial killer, i profiler, tipo Criminal Minds, per capirsi. Perché, torno al racconto, neanche il tempo di essersi tuffati, la ragazza che con una mano si tiene su i capelli, rossicci, per non farli bagnare e vanificare il lavoro del parrucchiere, che i due si accorgono che proprio lì, a pochi passi dalla riva, sul fondale neanche troppo alto si trova una macchina, e dentro la macchina c’è il corpo di una ragazza, il cadavere di una ragazza. Ora, fossimo in un racconto dozzinale i due avrebbero trovato direttamente il cadavere, i resti di quel che la ragazza era stato lì sotto il pelo dell’acqua, ma siamo ormai in un’epoca nella quale le serie tv, ce l’hanno raccontato allo sfinimento, finendo per convincerci, hanno sostituito la narrativa, sono la vera nuova lettaratura, le scorciatoie a effetto non fanno per noi.
La scena successiva, però, è altrettanto iconica dell’inizio di questo racconto. C’è l’area nella quale i due ragazzi stavano facendo il picnic invasa di auto della polizia, la zona delimitata dal nastro giallo. I due ragazzi sono in piedi, scalzi, ancora coi costumi. Si scaldano con delle coperte, neanche avessero passato in acqua l’intera nottata invece che pochi istanti. Stanno parlando con due poliziotti, uno dei quali, sovrappeso, ha ovviamente i baffi. A fianco del lago c’è un camion di quelli tipo carroattrezzi che sta tirando su l’auto col cadavere dal lago, l’acqua che esce dai finestrini abbassati. Il tempo che l’auto venga deposta sul prato che il poliziotto coi baffi è già lì a chiedere al medico legale il motivo del decesso, contravvenendo, immagino, a qualsiasi logica che non sia quella dei tempi stretti di un episodio, fatto che costringe gli sceneggiatori a andarci giù con l’accetta, quando si tratta di seguire l’iter delle indagini. Medico legale che indica al poliziotto coi baffi un chiaro segno di entrata di un proiettile nella tempia della ragazza. Non è morta perché è finita dentro il lago con la macchina, qualcuno le ha prima sparato e poi ha gettato auto e cavare nel lago, sperando di guadagnare evidentemente tempo.
Veniamo a noi. Veniamo a oggi.
Tutto è fermo, piantato, bloccato. Di più, tutto è moribondo, morto, in fase zombie, in fase zombie dopo aver incontrato qualcuno che gli ha piantato un colpo di mazza da baseball in testa.
L’Italia è in ginocchio, tra chi cerca di capire come andare avanti e chi racconta che nulla si è mai fermato. Interi comparti economici sono alla canna del gas, e a poco basta sapere che nelle zone rosse ci sarà un qualche tipo di aiuto, almeno con la sospensione delle tasse e il rinvio delle bollette. Scrivo, e scrivo di musica. I due settori nei quali mi muovo, quindi, li conosco bene. E sono settori in cui non solo non sta succedendo nulla, nel senso che tutto è immobilizzato, come una preda che si trovi di fronte un predatore, ma molto di quello che c’era o era in previsione è andato perso, con tutto quel che ne consegue. Guardando solo alla musica, niente concerti, niente dischi in uscita, visto che poi non ci sarebbero né presentazioni a beneficio della stampa, né firmacopie, niente di cui scrivere, quindi, a meno che non siate dei fottuti geni della parola, come me. Uno, per intendersi, che ha appena iniziato un articolo che vi parlerà di tre capolavori del passato, al momento persi nel dimenticatoio, e di conseguenza introdurrà ancora una volta l’argomento assai gradito dal titolo “ma quanto sono cretini i nostri discografici”, e nel fare il tutto è partito da due fidanzatini che fanno un picnic al lago, andando quindi a pescare una scena iconica di chiunque sia mediamente appassionato di gialli. Tornando a noi e all’oggi, tutto è immobile, ma immobile non in quanto guardingo e intenzionato a capire come muoversi, immobile tipo la ragazza col foro di proiettile nella nuca ripescata dal lago. Immagino già che i discografici, evocati poco fa in maniera poco lusinghiera, lo so, staranno lì a piangersi addosso come tifosi dell’Inter sempre pronti a gridare al complotto, sicuri che non fosse stato per il Coronavirus le cose sarebbero andate diversamente, che cioè si sarebbe tornati a vendere milioni di dischi, magari non più cd, ma i ritrovati vinili, o più semplicemente si sarebbe potuti tutti godere dello streaming, salvatore della patri. Me li immagino e immagino che stiano lì, chi a casa, perché le multinazionali hanno in parte chiuso gli uffici per paura del contagio, chi più stoicamente in ufficio a arrovellarsi su come girare la faccenda a proprio favore. Se penso a quanti staranno lì sul punto di scrivere una lettera aperta a Franceschini, Ministro dello Spettacolo e del Turismo, ho i brividi lungo la schiena, il che, oggi come oggi, dovrebbe indurmi all’autoisolamento, tipo Attilio Fontana, con tanto di video in cui goffamente provo a infilarmi la mascherina per non contagiare il mio smartphone.
La realtà è un’altra, e non credo sia necessario spiegarla. Sta tutta qui, in questo articolo. Ma siccome so che non mancherà di leggerlo anche qualche analfabeta funzionale, forse è il caso che specifichi, così tutto è più esplicito.
La discografia è morta, è vero, sepolta, uscita dalla tomba sotto forma di zombie e a sua volta terminata definitivamente dalla Lucille di Negan, ok. Ma a ucciderla non è stato il Coronavirus, non credete a chi vi cerca di far passare questa sciocchezza per la verità. La discografia è morta per mano degli stessi discografici, inutile che ora si affrettino a infilare il cadavere dentro una macchina e lasciare che le acque di un lago, il Coronavirus, appunto, le inghiotta prendendosi colpe o meriti dell’accaduto. Se a uno gli spari nella tempia muore. Funziona così.
Siccome però non mi basta dileggiare che è in fin di vita, non sono così stronzo come mi dipingono, sia messo agli atti, nel sottolineare la poca lungimiranza dei discografici di oggi, di più, nel sottolineare la totale incompetenza dei discografici di oggi, gente che avrebbe in mano il vaccino che potrebbe salvargli la vita ma preferisce fare altro, magari farsi i selfie spacciandosi per Riina o Provenzano, questo è già messo agli atti, basta solo cercare, ecco che vi voglio risollevare parzialmente gli animi mostrandovi tre tesori preziosi momentaneamente incastrati nel caveau di suddetta discografia, inavvicinabili ai più, anzi, a tutti, di qui il “parzialmente” di cui sopra. Tesori preziosissimi che però non potete ascoltare, mortacci loro.
Torniamo indietro nel tempo. Molto indietro nel tempo. Moltissimo indietro nel tempo. Chi scrive, cioè io, era all’epoca poco più che un ragazzo, ventidue anni. Siamo intatti all’inizio degli anni 90. Sanremo, non che conti davvero qualcosa, ma tanto per farsi un’idea, incorona prima i Pooh e poi Riccardo Cocciante, portando in evidenza anche artisti quali Minghi e Mietta o il duo destinato presto alla vittoria Aleandro Baldi e Francesca Alotta. Nel resto del mondo è un via via di grunge, di lì a esplodere globalmente, ma anche di U2 in salsa tedesca, di R.E.M. e di un sacco di ben di Dio. Noi siamo in Italia, e questo fa sempre la differenza, non necessariamente in meglio.
Ora, io sono uno che viene spesso tacciato di passatismo, che, cioè, viene accusato di guardarsi sempre alle spalle, intendendo con questo alla propria vita passata, con troppa indulgenza mista a nostalgia. E in genere chi mi accusa di passatismo, e ripeto capita spesso, mi fa anche notare come la musica del passato sia appunto del passato, incapace di rinnovarsi o anche solo di produrre oggi opere all’altezza di cotanto passato.
Tutto vero. Sono passatista, non nel senso di luddista, intendiamoci, lo ripeto allo sfinimento, mi state leggendo in rete, ma più come una sorta di steampunk, uno che ambirebbe a vedere un futuro, o anche solo un presente, in cui la tecnologia è magari sì presente, ma innestata con buona dose di quel che di buono c’è stato e che con il progredire del tempo è andato ahimé perduto per sempre.
Ho già parlato anche troppo, temo, credo quindi sia arrivato il momento di tirare fuori dal forziere i tre tesori di cui ho già fatto cenno, nella speranza, dichiarata, che tornino presto a disposizione di chi vorrà o vorrebbe ascoltarli. So che ho sempre detto che Spotify o più in genere lo streaming è il male. Confermo tutto. Non lo uso e se qualcuno mi manda un link di Spotify per farmi ascoltare qualcosa viene di solito invitato a andare a fanculo, da parte mia. Ma fosse anche solo su Spotify, oh zombie che presiedete alle case discografiche, sarebbe solo l’ultimo baluginio di vita prima del definitivo trapasso.
Siamo nel 1991, quindi, quando esce un album dal titolo Il Caso Barsotti. A pubblicarlo è un esordiente dal nome strano, Leandro Barsotti, appunto. Mio padre si chiama Learco, omaggio dei miei nonni paterni al ciclista Learco Guerra, campione nella metà degli anni trenta, ma di Leandri, prima di lui, non ne avevo sentito mai neanche uno. Quel che si sa, oltre al nome strano, è che Leandro Barsotti vive in Veneto, originario di Brindisi, e che è laureato in crimonologia. Uno, quindi, che potrebbe a buon diritto stare su quel prato da cui questo articolo ha mosso i primi passi, per cercare di profilare il killer. Comunque, a parte queste notazioni spartane, siamo nel 1991, internet vive giusto in qualche stanzino dell’Università americana, non c’è modo di sapere altro. Se non che Leandro Barsotti è un fottuto genio. Uno che ha una scrittura così vivida, questo ho pensato allora, poco più che ventenne molto appassionato di musica e di scrittura, questo penso oggi, ultracinquantenne che ha fatto della scrittura e della scrittura associata alla musica il proprio lavoro. I suoi testi sono oggi come allora davvero originali, duri, con parole poco consone alla forma canzone e, se ripenso a quegli anni, poco consone e basta, spesso molto volgari, politicamente scorrette, ma allora ancora il politicamente scorretto esisteva, quasi sempre disturbanti. Ma di quel tipo di disturbo che attrae chi non guarda all’arte come qualcosa di necessariamente consolatorio, che noia, ma come qualcosa che ci permetta di sentirci vivi, magari infliggendoci continue ferite, come quando mi capitava di guidare di notte in autostrada e per tenermi sveglio mi prendevo a schiaffi o mi tiravo violentemente la barba, questo prima di scoprire la Redbull, viva l’Austria. Già la partenza con E Tu Che Vuoi Andare Via, con quel riff di chitarra e quella sequela di parole accartocciate, luride, pulsanti, non potevano che metterti a tappeto. Ma tutte le tracce di questo sfolgorante album d’esordio sono ancora oggi all’altezza del nome “capolavoro”, dalla seguente Siamo Uomini Migliori, passando per la finale Non Mi Avrete Mai, già solo i titoli dovrebbero avervi procurato un’erezione, se solo anche dentro le vostre mutande esistesse un po’ di vita. Per non dire di Musica Leggera, prima traccia del Lato B, perché allora c’erano ancora i vinili. Anzi, beati vinili, visto che oggi solo quello di Barsotti rimane. E dire che negli anni novanta, prodotto da Michele Canova, che proprio con lui muoverà i primi passi, sotto l’egida della coppia Alberto Salerno e Mara Maionchi, Barsotti azzeccherà diverse canzoni, da Fragolina, fumettosa e volutamente stilizzata, a Mi Piace, una vera e propria hit, passando per Lasciarsi Amare o Voglio Che Mi Ami. Di tutto ciò, oggi, non resta traccia. Niente cd, niente streaming. Lui, Leandro Barsotti, da tempo si dedica al giornalismo, e noi ne sentiamo una dannata mancanza. Ma l’idea che sia impossibile per le nuove generazioni ascoltarlo grida vendetta.
Come grida vendetta il fatto che si muova ormai da vero outsider nel mondo della musica un altro artista geniale e sgaruppato, si legga questo ultimo aggettivo non solo con affetto ma con l’ammirazione che un outsider sgaruppato può trasmettere a un suo simile, Rudy Marra. Era sempre quel 1991, anno evidentemente magico, quando un Andrea Occhipinti legnoso quanto poco incline alla parola, lo presenterà sul palco dell’Ariston, in gara tra le Nuove Proposte del Festival. Andatevi a cercare quella esibizione, perché solo la presentazione merita. La canzone si chiama Gaetano, ed era l’apripista del suo album d’esordio, Come Eravamo Stupidi, titolo che prende le mosse dai primi versi della canzone festivaliera. Una canzone che parla di eroina, ma lo fa con un disincanto e una poesia oggi non tanto rari, quanto proprio introvabili. Rudy, laureato in sociologia di Galatina, ha radici che affondano nel punk tanto quanto nel jazz, e le sue canzoni sghembe, sferzanti e sardonicamente giocate sul filo di una sorta di compassionevole sguardo rivolto all’umanità tutta, specie a quanti dell’umanità vengono indicati come gli ultimi, è una puntura di adrenalina infilata dritta dritta nel cuore quando ormai stanno per dichiararci clinicamente morti. Un Gil Scott-Heron che si sporca le mani con la nostra canzone d’autore, con le nostre radici, penso alla sua Tromp l’oeil, a Sono un Genio Ma Non lo Dimostro, la canzone come l’album, o alla hit Sono Felice, canzoni che hanno la pressione alta in una sala piena di gente che collassa in cerca di zuccheri. Non dovrei dirlo, ma visto che ho avuto modo di ascoltare alcune delle sue nuove composizioni, l’idea che oggi non ci sia sotto casa sua, incuranti del rischio contagio, tutti i discografici a implorarlo di firmare per loro, e l’idea che un Massimo Bonelli, è a te che sto parlando, organizzatore del Primo Maggio a Roma, non lo abbia già messo sotto contratto per suonare lì, magari in compagnia di quel Dana Colley, sassofonista tra gli altri dei Morphine, col quale da una decina d’anni condivide arte e parte, beh, mi lascia esterrefatto, come di chi non capisce perché di fronte a tanta bellezza non si possa che rimanere estasiati, non certo distratti o indifferenti.
E siccome siamo partiti da lontano, dal 1991, mi voglio un minimo avvicinarmi a noi, di poco, eh, giusto di un anno. È infatti nel 1992 che esce il primo album solista di quell’altro genio di Brando, già a capo negli anni precedenti del combo rockabilly chiamato Boppin’ Kids, col quale aveva girato il mondo intero. Chitarrista e cantante catanese, alla corte di Francesco Virlinzi nell’epoca in cui Catania era sia la nostra Seattle che la nostra Athens, Georgia, Brando ha preso la forma rock’n’roll, quella di un Gram Parsons quanto quella di un John Mellencamp, penso sia alla fase Cougar che a quella successiva, che so, di un Lonesome Jubilee, album che andrebbe fatto suonare in tutte le scuole durante gli intervalli, e ne ha plasmato una versione italiana. Rock sanguigno, quindi, con infusioni di Van Morrison quanto di uno Steve Earle in fase pre-Trump, una via italiana a un genere che da noi ha purtroppo avuto altre iconcine appiccicate su, ma che proprio nella lettura filologicamente più corretta di Brando ha trovato la sua massima rappresentanza. Ascoltare oggi tutto Santi e Peccatori, questo il titolo dell’album d’esordio da solista, con il folk di Oh Mary e la lubrica Donne in Amore, ma anche i successivi Fuori dal Branco, dalla titletrack a Martha, vero punto di incontro tra Catania e il sound a la R.E.M., e Buoni Con Il Mondo, dal piglio meno americano è esercizio che ripaga dello sforzo di dover andare su Spotify, parlo per voi poveri Cristi che non li avete in cd, come me. Canzoni che fanno proprie le strutture solide di vecchi blues, standard rock, ballad sensuali quanto ironiche, insomma, tutto un mondo che si muove scalpitando sopra le sei corde di un dobro, se vi pare poco. Brando, ahinoi, ha poi deciso di passare al lato oscuro della Forza, scavallando il confine che divide artisti e discografia, ma lo ha fatto sempre con la sua chitarra in mano, e quando un uomo con la chitarra incontra un uomo senza chitarra, si sa, l’uomo senza chitarra è un uomo morto.
Ecco, so di avervi chiesto molto, oggi, ma se mai aveste bisogno di una controprova che i nostri discografici sono causa del loro e nostro male, e che di musica, ahiloro e ahinoi, nulla sanno, vi basti sapere che Leandro Barsotti, Rudy Marra e Brando sono ancora tra noi ma non incidono dischi e che i loro dischi, fatta eccezione per quelli di Brando presenti su Spotify, sono ormai fuori catalogo. Oltre, quindi, a invitarvi a farvi sentire, cioè a tempestare le case discografiche di richieste a riguardo, oltre a invitare i moribondi o zombie di cui sopra di metterci una pezza, oltre a invitare i diretti interessati di fare qualcosa per rendere meno mesto questo nostro mesto transito terrestre, sempre che il contagio non sia in effetti definitivo e presto di transito non resti più che il ricordo, faccio mie le parole di Musica Leggera di Leandro Barsotti: “Quando verrà il Giudizio Universale sarete tutti in fila, quando verrà/ Quanti cantanti a piangere e pregare, che non vogliono pagare, ma verrà”. Dopo non dite che non vi avevamo avvisato per tempo, compagni.