Come si può raccontare Strange Days dei Doors a un bambino di 8 anni? Ci ho provato: ho spiegato a Giorgio – che cerco di indottrinare alla grande musica – che questo è il disco dell’amore che si recinta fuori dai disordini del Vietnam, perché lui non può capire che il 1967 era un anno difficile per la musica, per l’arte, per la politica e per tutta la razza umana. Questo, Jim Morrison, lo aveva ben presente e per questo raccontava dal suo microfono ciò che pulsava in tutta la parte pacifista dell’Occidente: quel “fate l’amore” diventava un “fatevi d’amore”.
Gli “strani giorni” di Strange Days, il secondo album dei Doors, erano là fuori, e il quartetto di Venice Beach rispondeva con: “Vogliamo il mondo e lo vogliamo adesso”, offrendo al pubblico sonorità già nuove per essere solamente il capitolo secondo della discografia. Era l’anno in cui Ray Manzarek suonò il sintetizzatore moog e il clavicembalo, mentre dopo l’istrionico e seducente rock del primo album (l’omonimo) i Doors ritornavano con un disco più acido e sognante.
Inutile dire che al Giorgino piacciano Strange Days, Love Me Two Times, Moonlight Drive, People Are Strange e Moonlight Drive. Perplimo, piuttosto, quando resta indifferente per When The Music’s Over, e qui inizia il mio lavoro. “Vedi, i Doors erano più arrabbiati dei Beatles, ti ricordi i Beatles?”, lui annuisce. Io continuo: “Jim Morrison era il cantante, e quando parlava dei problemi del mondo lo faceva girando intorno ai concetti, per non essere troppo banale”. Gli racconto dei pregiudizi messi alla porta da People Are Strange, di quella Moonlight Drive che suggellò l’affinità artistica tra Ray e Jim e della title-track, che con quell’intro sembra voler imitare una pioggia acida e una giostra caleidoscopica di volti. A lui piace.
Giorgio fa un balletto quando dopo l’intro intervengono il basso e i tom sofisticati di John Densmore. Da prima a quarta minore, nella strofa, inizia il trip di mio nipote, che è troppo innocente per capire cosa significhi “trip”. Lo lascio lì, a godersi quel giro armonico così perfetto e sinistro che mi fa capire che non tutto ha bisogno di una spiegazione.
La chitarra blues di Robby Krieger conquista il marmocchio in Love Me Two Times, dove vince la ritmica, quasi spiritosa, che accompagna un testo di amore e sensualità che sa anche molto di disperazione. La parte più difficile, però, è inoculargli l’apprezzamento di When The Music’s Over dopo averlo visto indifferente.
Il brano è la suite che chiude il disco, il messaggio d’amore per l’arte che i Doors lanciano in 11 minuti di rock e psichedelia: la musica sarà nostra amica fino alla fine, anche quando si riduce al solo grido di una farfalla, e così sarà mentre il mondo intorno esplode per la guerra che la razza umana ha dichiarato a se stessa. “Save us, Jesus”, esplode Jim nella parte finale. Forse in quel momento vede una bomba al napalm pronta a schiantarsi sulla sua testa, o forse vede le carestie, i bambini che corrono nudi. Mentre arruffo i capelli di Giorgio noto che capisce: ora ascolta il brano con interesse, non so nemmeno io come sia stato possibile. Io non ho fatto niente.
Sono stati loro, sono state quelle terzine che anticipano l’ending del brano, è stato il carisma di Jim Morrison, è stata la forza sonica degli strumentisti. È stato Strange Days dei Doors, che dimostra di essere ancora una forza dopo 52 anni e mi rende fiero di avere un nipote che salverò dalla trap, e che sembra volermi seguire. No, non è indottrinamento. Si chiama “alfabeto”.