Per comprendere The Politician aiuta conoscere Ryan Murphy, e per conoscere Ryan Murphy aiuta tener presente che nulla, nelle sue storie, è mai lasciato al caso. Dal claim dei poster promozionali ai titoli di apertura al messaggio introduttivo, ciascuno dei segnali inviati allo spettatore di The Politician appare di una chiarezza e di una validità inappuntabili.
Promettiamo di promettervi qualsiasi cosa, recita il primo, e in effetti la serie sfugge immediatamente alla definizione di comedy satirica per attingere quanto più possibile al drama, al musical, alla soap, al teatro, a qualsiasi cosa non sia la realtà. La sequenza di apertura, poi, mostra la nascita del personaggio-Payton-Hobart, una vera e propria costruzione, un assemblaggio di ideali, convizioni, ispirazioni politiche, letterarie, personali secondo strategie ben precise. Il messaggio introduttivo, infine, è una sorta di avvertimento. Ancora una volta la serie mette sul tavolo le proprie carte svelandosi come una comedy sull’ambizione a tutti i costi, ma avvisando al contempo sulla delicatezza di alcuni temi trattati. Patti chiari, insomma…
Attenzione, spoiler!
The Politician, su Netflix dal 27 settembre, segue dunque le tribolanti vicende di Payton Hobart, liceale cresciuto nella convinzione che la sua storia sia già scritta, e che ogni pagina racconti di un passo compiuto verso la destinazione finale: diventare Presidente degli Stati Uniti. La costruzione di una sfavillante carriera politica deve partire dalla conquista del titolo di presidente del corpo studentesco al liceo di Santa Barbara, e così ciascun episodio osserva i piani, le intenzioni, i complotti e le macchinazioni messe a punto per favorirne o impedirne il raggiungimento.
Questo impianto, come prevedibile, non è che il punto di partenza di una riflessione più ampia. Al centro di tutto c’è il disgustoso privilegio che permea le vite di quell’1% potenzialmente in grado di influenzare le sorti del mondo. [In The Politician] parliamo di persone ricche che si comportano male, aveva anticipato Ryan Murphy, ma è la forte attinenza all’attualità americana a emergere in modo ancor più prepotente. L’idea di poter aggirare l’ostacolo della meritocrazia comprando l’ammissione a un’università dell’Ivy League, ad esempio, si ricollega palesemente alle vicende personali di Jared Kushner, suocero di Donald Trump, e profetizza l’operazione Varsity Blues, nella quale è stata coinvolta Felicity Huffman.
La politica è dunque il mezzo di cui Ryan Murphy, Brad Falchuk e Ian Brennan si servono per smascherare l’ambizione senza confini di chiunque provi, ciascuno a suo modo, a sfruttare ogni situazione a proprio vantaggio. Payton ne è la figura prominente, ma non l’unica. Il suo ego è sì guidato da un effettivo desiderio di rendersi utile agli altri e rendere il mondo un posto migliore, ma deraglierebbe in fretta se non potesse contare sul sostegno incondizionato dei collaboratori McAfee, James e Alice. La loro non è una lealtà cieca, quanto una programmazione strategica di lungo termine: il successo di Payton, infatti, è un lasciapassare al loro stesso successo.
Come in qualunque storia che si rispetti, anche in The Politician il viaggio dell’eroe è ostacolato da una lunga serie di inconvenienti e antagonisti agguerriti. Certo, la serie non brilla per verosimiglianza nello snodarsi di tentativi di omicidio e avvelenamento, nel ricorso alla sindrome di Münchhausen per procura o nello spettro della povertà come punizione. È però in questa fiera dell’assurdo che emergono gli intenti satirici della serie, e che fra qualche risata e alcuni momenti vagamente commoventi si giunge al momento di svolta nella vita di Payton: la rinuncia a qualsiasi ambizione politica.
L’allontanamento del protagonista dal microcosmo di ricchezza, privilegio e presunti diritti acquisiti in quell’angolo di California sembra depurare l’uomo e permettergli di entrare in contatto con un sé non politico. È nella relativa normalità della vita condotta a New York che Payton riesce a sentire e in cui – come rivela il fantasma del suo defunto grande amore – le sue emozioni non sono dettate dalle necessità di una campagna elettorale.
La svolta coincide con l’ultimo episodio e lascia intravedere cosa The Politician sarebbe potuta essere se fosse stata concepita con altri intenti, se non contasse tanto sull’assurdo, se non fosse così imbevuta di irrealtà nonostante le aspirazioni di analisi sociale. Ma è anche questo un mezzo, un’indicazione della futura grandezza di Payton. La normalità è infatti solo un breve inciampo nella via per la grandezza, e così la stagione si conclude con la promessa di una nuova e ben più impegnativa corsa politica.
Come detto, The Politician è davvero entusiasta nel promettere di prometterci qualsiasi cosa, ma è inevitabile che una tale ambizione e ricchezza d’intenti possa dare risultati poco omogenei. Il cast, tuttavia, si presenta come un blocco granitico di brillanti performer. Ben Platt (Payton) ha già conquistato un Tony e sterminate folle teatrali in Dear Evan Hansen e The Book of Mormon, e il piccolo schermo è solo l’ennesimo palco dal quale mostrare un talento versatile e cristallino. Se Payton appare come qualcosa in più di un ricco e odioso post-adolescente il merito è soprattutto della sua prova, della sua capacità di rendere evidente la profonda vulnerabilità del personaggio. La dinamica più elettrizzante della stagione è però quella fra Infinity e Dusty Jackson, interpretate rispettivamente da Zoey Deutsch e Jessica Lange. Episodio dopo episodio, le perverse macchinazioni, gli squallidi interessi e le menzogne si fondono a storie personali di dolore, abbandono e disarmante solitudine. Jessica Lange, ancora una volta, scava in profondità nell’anima con il virtuosismo di pochi eletti.
Gli scampoli di umanità e le ben più frequenti espressioni di superficialità sembrano quasi scomparire in un universo visivo che trasuda opulenza. Privilegio e ricchezza definiscono qualsiasi cosa, dall’abbigliamento ai gioielli, dagli arredi alle automobili, e si avverte una certa nostalgia del passato in un’ambientazione che dovrebbe essere contemporanea. Se da un lato quest’enorme abbondanza è la più logica manifestazione di agi e privilegi, dall’altro serve uno scopo ulteriore: alienare quel mondo dallo spettatore medio. La satira, l’estetica, l’essenza stessa di The Politician non possono che creare un solco enorme fra normalità e privilegio esclusivo. L’effetto collaterale è lo scollamento emotivo dai personaggi al centro della storia. Difficile, insomma, sentirsi crescere dentro l’empatia verso l’umanità sperduta di Payton, i sacrifici di Alice in nome di un sogno e quelli di Georgina per il bene del figlio o la fame di valori di Astrid. Molto più semplice trovarli puramente irritanti.
Le stranezze e le esagerazioni dell’universo-The Politician riescono comunque a lasciar spazio ad alcuni temi sensibili che avrebbero meritato maggior approfondimento. La salute mentale, anzitutto, chissà un po’ banalizzata nella convizione di River di non poter trovare nulla che faccia star meglio. Oppure l’ampissimo spettro di orientamenti espresso dai personaggi della serie – Payton, River, Skye, McAfee, James… – e mai davvero sfruttato come elemento distintivo della serie. Non che li si possa considerare difetti, ma è un peccato che l’indirizzo di The Politician e il suo andamento concitato non abbiano lasciato un margine sufficientemente ampio alla sensibilità di Ryan Murphy su questi temi.
The Politician è già stata rinnovata per una seconda stagione su Netflix ed è facile prevedere sviluppi ancor più interessanti con il passaggio dal liceo alla vita post-universitaria. Al netto di qualsiasi riflessione sugli aspetti più o meno riusciti della serie, resta semplice godersi la storia per quello che è: una produzione non rivoluzionaria, ma certo accattivante, rapida, ambiziosa e sapientemente orchestrata, in perfetto stile Ryan Murphy.