Che sia dopo una o dieci stagioni, arriva sempre il momento di dirsi addio; l’unica libertà sta nella scelta del modo in cui farlo. C’è chi prosegue come se nulla fosse, sperando così di esorcizzare la malinconia del momento, e c’è chi di questa malinconia fa un sentimento legittimo, e anzi il filo che lega ogni lembo della storia.
Orange Is the New Black 7 ha scelto proprio quest’ultima via, segnando la conclusione di un viaggio durato sei anni e sette stagioni. Immaginare che quest’ultima carrellata di episodi potesse sviscerare il destino di ogni personaggio non era verosimile, ma le detenute con le quali abbiamo più gioito e sofferto hanno avuto tempo e modo di salutarci e prepararsi alla vita senza di noi.
Attenzione, spoiler!
La speranza – che abbia ucciso o salvato dalla morte – è uno dei temi più ricorrenti in Orange Is the New Black 7. Piper, le cui vicende ci hanno permesso di entrare per la prima volta nelle celle di Litchfield, si aggrappa a essa per mantenere vivo il rapporto con Alex e riuscire ad affrontare le difficoltà della condizione di ex detenuta.
La tediosa, logorante burocrazia dei primi mesi di libertà evidenzia tutta la rigidità di un sistema che non è esattamente propenso ad accogliere a braccia aperte gli individui con un passato problematico. Tuttavia è innegabile che il suo lento processo di reinserimento in società sia semplificato dal fatto di essere una donna bianca con una famiglia borghese in modalità salvagente.
Privilegi sociali a parte, Piper soffre e si scontra giorno dopo giorno con la limitatezza delle sue buone intenzioni. A farne le spese rischia di essere il matrimonio con Alex, problematico non solo per la distanza ma anche per l’impossibilità di comunicare in modo aperto e sincero. Le due arrivano persino a separarsi – o a provare a farlo – ma né Zelda né McCullough sono incidenti di percorso così gravi da impedire a Piper di lottare per Alex.
La libertà si rivela ben più complicata per Black Cindy, punita dalla vendetta di Taystee o più semplicemente dal karma. Già corrosa dal senso di colpa verso l’amica ma disposta a conviverci pur di uscire di prigione, Cindy si ritrova a scavare il fondo del barile quando la libertà è tale da non garantirle neppure un tetto sopra la testa. Anche per lei, in ogni caso, resiste la speranza di un futuro migliore: quello di donna responsabile, anzitutto nei confronti della madre e della figlia, da lei deluse più e più volte nel corso degli anni.
Il gesto di Taystee verso l’ex amica potrà esser parso meschino, ma è comprensibile alla luce del suo insondabile dolore. Anche in Orange Is the New Black 7 Danielle Brooks celebra splendidamente il personaggio e tutto ciò che esso rappresenta, portando sullo schermo la storia straziante di una donna vittima di un’ingiustizia insopportabile. Così insopportabile da farle accarezzare l’idea del suicidio, prima di lasciare lo spazio necessario a sviluppare una nuova coscienza della vita.
Sia chiaro: non c’è alcun lieto fine per Taystee. Il suo caso non viene riesaminato e la condanna all’ergastolo per un omicidio mai commesso resta in vigore, ma nell’insegnamento e nel Poussey Washington Fund trova la speranza di un’esistenza densa di significato. Certo non utile per sé, ma cruciale per il ribaltamento di altre ingiustizie: quelle cui sono condannate le detenute più povere una volta riacquistata la libertà. Tasha Jefferson, insomma, si conferma il cuore pulsante della serie.
La sua volontà di sopravvivenza si sovrappone dolorosamente all’impossibilità di farlo di Pennsatucky. La Tiffany Doggett tratteggiata nelle prime stagioni come una giovane intaccata da ignoranza, dipendenze e relazioni tossiche è adesso una donna almeno apparentemente in pace con sé stessa, persino aperta alla possibilità di migliorarsi. Il riconoscimento della dislessia e le attenzioni dell’insegnante la aiutano a trovare nello studio un mezzo sano per affrancarsi e scardinare finalmente la convinzione interiorizzata di essere soltanto stupida.
Anche per lei la speranza gioca un ruolo fondamentale, seppur con risvolti negativi. Tiffany crede che superare l’esame significhi ottenere una forma di rivincita personale, ma pensando poi di esser stata bocciata si convince che aprirsi alla mera eventualità di un successo sia inutile o distruttivo. La sua morte non avviene tanto – o non solo – per colpa di un’overdose da Fentanyl, quanto per la negligenza di Luschek e il totale disinteresse delle autorità nei confronti dei carcerati. Scoprire poi dell’esito positivo dell’esame pur in mancanza di minuti extra rende la tragedia del suo suicidio ancor più insensata e sconvolgente.
Orange Is the New Black 7 riserva un destino dolceamaro anche al trio Red-Lorna-Nicky. È in particolare quest’ultima a dover sostenere il peso emotivo del declino delle donne più importanti della sua vita. La demenza senile di Red porta a un rovesciamento del rapporto con Nicky, ancora una figlia ma non più una figlia. Adesso è la più giovane a dover vegliare sulla donna che tante volte ne ha assicurato la sopravvivenza. Nicky abbraccia questa missione con trasporto, per quanto doloroso sia dover dire addio alla Red che ha conosciuto e amato fino a quel momento.
Altrettanto straziante, per Nicky, lo strappo da Lorna, incapace di processare la morte del figlioletto e regredita in un luogo sicuro della mente in cui il piccolo è stato soltanto portato via dal padre. Un flashback al suo passato mostra come Lorna non sia nuova a questi blackout mentali, ma è ugualmente triste vederla diventare l’ombra di sé stessa. L’unica nota di tenerezza si coglie nel quasi inconsapevole legame madre-figlia che lei e Red riescono a creare in Florida.
In Orange Is the New Black 7 Nicky è una delle donne più colpite dal dolore della perdita. Nel giro di pochi giorni è costretta infatti a rinunciare anche a Shani, immigrata egiziana con cui stringe un immediato legame nella cucina del centro dell’ICE. Nessuno più di lei meriterebbe di trovare un po’ d’amore e tenerezza, ma il rimpatrio della ragazza le toglie anche questo. Fortunatamente la debolezza e l’oscurità del suo passato non sono più una minaccia. Adesso Nicky ha tutta la forza d’animo che le serve per affrontare questa nuova ondata di difficoltà, e persino ritagliarsi un inedito ruolo da leader. In chiusura la si vede dare indicazioni alle compagne in cucina col cappello – e il cipiglio – di Red e il rossetto di Lorna.
Le cucine del centro di detenzione per migranti irregolari sono un’anticamera di radicale redenzione anche per i principali personaggi latinoamericani della serie. Qui Gloria e Flaca si rendono involontarie manovratrici di una rete clandestina che aiuta le immigrate a mettersi in contatto con avvocati e familiari. Lo strazio dell’attuale condizione dei migranti bloccati al confine degli Stati Uniti è reso nella serie attraverso il racconto di storie infinitamente tristi ma purtroppo più che comuni.
Un caso particolarmente sfortunato è quello di Maritza, convinta di essere una cittadina statunitense ma nata invece in Colombia e lì rispedita nonostante non vi abbia mai vissuto. Oppure quello di Karla, disposta a difendersi da sola pur di ritornare dai figli, ma costretta invece a lasciare gli USA per El Salvador. Solo la storia di Blanca trova un lieto fine grazie all’aiuto di un avvocato e al rinnovo della green card, ma in un discutibile colpo di scena finale la si vede rinunciarvi per riunirsi a Diablo in Colombia. Il messaggio potrebbe suggerire la prevalenza dell’amore rispetto a qualsiasi considerazione materiale, ma la scelta della donna appare comunque frettolosa e sconsiderata. Quasi contraddittoria, alla luce della sua stessa battaglia contro il rimpatrio.
- Kohan, Jenji (Author)
Orange Is the New Black 7 si sofferma poi più di una volta sui percorsi di crescita delle detenute. Per quanto Gloria creda che esista una Maria Ruiz per ogni occasione, quest’ultima sembra davvero sulla strada giusta per la redenzione. Riuscire a chiedere il perdono delle compagne ferite e permettere al padre di sua figlia di andare avanti con la propria vita sono gesti di maturità, grazie ai quali può persino ripristinare una sorta di maternità filtrata che la accompagni fino al momento del rilascio.
Crescita è una parola chiave anche per Suzanne, a suo modo più saggia e matura e finalmente pronta a gestire il peso della perdita delle persone che ama. Dire addio al personaggio e alla sua strepitosa interprete – un’Uzo Aduba indimenticabile – è doloroso come allontanarsi da una cara amica, ma a differenza del passato esiste ora la concreta possibilità che la donna possa cavarsela contando anzitutto sulla propria forza interiore.
E infine crescono e si evolvono Joe Caputo e Natalie Figueroa, inattesi protagonisti di una relazione complessa eppure realistica e indiscutibilmente domestica. Entrambi si trovano costretti a fare i conti con ciò che hanno dentro e di cui in principio non sono del tutto consapevoli. Joe comprende la natura dei propri comportamenti inappropriati nei confronti di un’ex dipendente, riappropriandosi della definizione di brav’uomo e mostrando il suo sincero interesse per Taystee e le altre detenute.
Natalie sveste invece i panni di cattiva nuda e cruda per far spazio a sentimenti di umanità e al desiderio di essere madre. L’interruzione dell’iter per la fecondazione assistita e la comparsa di una bambina che canta una canzone rap a tema marijuana – sradicando il suo desiderio di adottare un maschio di meno di due anni – è una conclusione ironica e perfetta per la storia di una coppia dal legame insospettabilmente comico.
Orange Is the New Black 7 offre invece poco di cui sorridere alla famiglia Diaz. Aleida è tornata in carcere e i suoi tentativi di escludere Daya dal business della droga in modo che questa possa disintossicarsi falliscono miseramente. Come lei stessa nota, la figlia non è più la ragazza dolce che passava il tempo a disegnare e parlare di cose noiose. Adesso è una donna cattiva e irriconoscibile, una caricatura di criminale che in stile thug life arriva a coinvolgere la sorellina nel traffico di droga all’interno della prigione. Aleida ha certo un complicato rapporto con quelli che crede siano i doveri di una madre – faccio il lavoro sporco perché non debbano farlo i miei figli, il suo principio guida –, ma non si può non provare un briciolo di pena di fronte alla totale vanità dei suoi sforzi.
L’episodio conclusivo di Orange Is the New Black 7 trova inoltre alcuni istanti per riportare sullo schermo un po’ tutte le detenute osservate nel corso degli anni, da Big Boo a Yoda Jones, da Soso a Norma, e persino Poussey, Sophia e Judy King. La malinconia prende quindi il sopravvento: è l’inizio della fine e questa è l’ultima opportunità di dare uno sguardo alle vite delle detenute.
Le conclusioni da trarre, purtroppo, non sono sempre positive. Anzi, l’impeccabile dedizione con cui la serie narra le vicende di ciascun personaggio – delineandone al contempo i possibili sviluppi – evidenzia molto chiaramente quanto poco sia destinata a cambiare la routine di Litchfield e il marcio covato all’interno del sistema carcerario in genere.
Il progetto di Taystee è un successo, i programmi di Tamika dimostrano di avere del potenziale, ma il brutale materialismo corporativo – incarnato da Linda, quella che per Joe Caputo è una stronza senz’anima – è ancora la norma. La volontà di tagliare le spese e massimizzare i profitti restano i principi cardine, e con la nomina di Hellman a direttore non esiste alcuna speranza nel superamento della corruzione o dell’afflusso di droga in carcere.
Il messaggio, insomma, è che è lecito nutrire speranze nei confronti delle storie e dei destini dei singoli, ma un po’ meno aspettarsi che il sistema sia davvero pronto a cambiare. Lo dimostrano la maggior parte dei richiami all’attualità statunitense, dall’oggettificazione dei detenuti alle palesi violazioni dei diritti umani compiute nei centri ICE.
Orange Is the New Black 7 chiude così il sipario su una storia sempre delicatamente bilanciata fra commedia e dramma, abile nel far sorridere, ridere apertamente, battere il cuore, piangere a dirotto. Quest’ultima stagione supera brillante gli scivoloni degli anni passati e torna agli irresistibili ingredienti che ne hanno fatto un punto di riferimento non soltanto per Netflix, ma anche e soprattutto per i tantissimi fan che grazie a essa hanno compreso il potenziale della rappresentazione.
Poche serie, infatti, ne hanno saputo espandere e arricchire il significato con tale maestria. Orange Is the New Black è terminata, ma in sei anni e sette stagioni ha saputo farsi cuore e mente di infinite storie su etnie, religioni, orientamenti sessuali e politici, dipendenze, disabilità, ingiustizie, preconcetti. Alcuni critici ne hanno biasimato l’eccessivo pessimismo, convinti che la serie resti una fonte d’intrattenimento, non un documentario sulle condizioni dei detenuti, ma un’argomentazione così riduttiva non rende giustizia all’immenso lavoro fatto da ogni dipartimento della produzione.
Orange Is the New Black non è soltanto la storia di un gruppo di detenute, ma una mano tesa a tutte le minoranze che prima del 2013 non si sono mai viste rappresentare in modo talvolta crudele, sì, ma allo stesso tempo così profondamente compassionevole. Porteremo nel cuore l’umanità imperfetta di questo piccolo mondo di cuori spezzati, così come le sue tante interpreti mozzafiato e una colonna sonora cucita ad arte sui nostri e i loro sentimenti.