Midsommar – Il Villaggio Dei Dannati, per Ari Aster l’horror è una questione di eleganza

Dopo Hereditary, il giovane regista e sceneggiatore Aster torna con un film che conferma la sua idea di orrore giocata sulle atmosfere e la cura formale

Midsommar

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Midsommar – cui la distribuzione italiana aggiunge un posticcio “Il Villaggio Dei Dannati”, preso pari pari dal titolo di un classico del 1960 – conferma la statura del suo regista e sceneggiatore, il giovanissimo Ari Aster, classe 1986, che s’era già messo in luce con l’horror familiare d’esordio Hereditary.

Con questo nuovo titolo aumentano anche le ambizioni di Aster, a conferma, non solo rispetto al suo autore, della stagione assai felice attraversata dal genere horror, che accanto agli usuali film giocati su effetti truculenti e jumpscare, negli ultimi anni ha dato frutti di assoluto valore, il terrore in chiave politica di Jordan Peele (Get Out e Us), l’attenta radiografia sulle inquietudini dell’adolescenza del notevole It Follows di David Robert Mitchell, la paura metafisica di The Witch di Robert Eggers, anche di notevole cura formale.

E la forma è una delle preoccupazioni principali di Ari Aster, che s’è installato in Ungheria con la sua troupe per creare da zero un fittizio e isolato villaggio nordeuropeo, abitato dalla piccola comunità svedese degli Hårga dedita a singolari rituali in piena armonia con i cicli della natura. In questo luogo edenico, una campagna dolce, assolata e lontana dalla civiltà, si dirige un terzetto di studenti universitari americani specializzandi in antropologia, Christian, Mark e Josh, invitati dall’amico Pelle, originario di quelle parti ed elettrizzato all’idea di mostrare agli amici l’inebriante festa di mezza estate, che si svolge sono una volta ogni numerosi anni. Agli studenti si aggiunge la fidanzata di Christian, Dani (Florence Pugh), reduce da una immane tragedia, l’omicidio-suicidio della sua famiglia perpetrato dalla sorella gravemente depressa – delitto che Aster rende con una soluzione visiva di scioccante eleganza.

L’arrivo nelle terre di Midsommar è, per i giovani americani, all’insegna del più felice stupore. Tutto appare magnifico ai loro occhi, dagli scenari morbidi alla comunità sorridente e affettuosa, piena anche di bellezze nordiche cui gli studenti non sono insensibili. Sembra insomma la materializzazione del nostro immaginario occidentale – con tutti i suoi stereotipi deteriori – relativo alle culture nordiche: sensualità panica, disinibizione, vita semplice e rispettosa della natura.

Basta poco a capire che le cose non andranno esattamente lisce e che dietro la superficie levigata e accogliente, i modi affabili e sereni dei locali debba nascondersi qualcos’altro. E se si può dire che Midsommar alla fine partorisca un epilogo tutto sommato prevedibile e non all’altezza delle premesse, va detto che il valore del film è soprattutto legato alla qualità della messinscena. Colpisce, anche se in sé non originalissima, l’idea di ambientare un racconto dell’orrore – che ricorre comunque a pochi particolari macabri – nella più accecante luce meridiana di un sole che non tramonta mai, costruendo anche un complesso tessuto di rituali attento ad ogni aspetto – merito allo scenografo Henrik Svensson -, dalle immagini inquietanti che adornano le pareti delle camerate alla cura del cibo e dei momenti conviviali. Ed è calibratissima l’impaginazione visiva di Midsommar, che diversamente dagli usuali e frenetici salti di montaggio tipici dell’horror privilegia, con piena consapevolezza della grammatica espressiva, inquadrature lente, ralenti, carrellate chirurgiche nelle quali lo spavento non è tanto nella sorpresa del dettaglio scioccante quanto nella costrizione a guardare e scoprire la verità sotto la superficie.

I giovani antropologi, ingenui e manipolabili come un gruppo di ragazzini in gita scolastica

La macchina da presa di Ari Aster invece di celare allo sguardo mostra la realtà da diversi angoli visuali, ribaltandoli talvolta, come nell’inquadratura che mostra il mondo sottosopra dell’estremo Nord, sino a inquadrature dall’alto che, offrendo un punto di vista complessivo allo spettatore, lo invitano in fondo a non lasciarsi fuorviare dai particolari entusiasmanti.

Che è, alla fine, quel che fanno invece gli studenti americani – qui c’è uno degli affondi ironici del film –, i quali saranno pure raffinati antropologi da biblioteca, eppure guardano a quel mondo con l’ingenuità del turista di bocca buona, distratti come vitelloni qualunque dalle belle ragazze e semmai disposti a minimizzare le tragedie cui cominciano ad assistere perché inebriati all’idea di poter dedicare la tesi di dottorato a quella misconosciuta comunità. Ed è chiaro che, accecati dal testosterone tanto della virilità che dell’ambizione accademica, saranno i giovani uomini a fare le spese di questo incubo a cielo aperto, mentre la giovane Dani, completamente orfana e mal sopportata dal fidanzato imbelle, troverà lì la sua rivincita e una nuova famiglia di cui diventare regina.