Ai David di Donatello del 2018, Ammore e malavita dei Manetti Bros, che stasera Rai 2 manda in onda in prima tv alle 21.20, collezionò 15 candidature e 5 statuette, tra cui la più pesante, miglior film, dopo essere persino passato in concorso alla Mostra di Venezia del 2017. Impensabile fino a pochi anni fa una consacrazione simile, l’ingresso nel salotto buono del cinema d’autore per i fratelli Marco e Antonio Manetti, orgogliosi e lucidi promotori di un cinema che ha sempre pescato senza nostalgie regressive nel grande giacimento dei generi, per decenni architrave dell’industria del cinema italiano al tempo in cui godeva di ottima salute.
I Manetti hanno firmato thriller, poliziotteschi – non solo film, pensiamo alla fortunata serie tv dell’ispettore Coliandro –, horror (Zora la vampira), fino all’ultima clamorosa doppietta sotto il Vesuvio, Song ’e Napule e appunto Ammore e malavita, che ha consentito loro di aggiungere all’enciclopedia dei generi toccati anche il musical/musicarello.
In effetti volendo trovare una ragione nell’improvvisa passione partenopea dei romani Manetti Bros., la si potrebbe individuare da un lato nel fatto che il loro attore feticcio, Giampaolo Morelli, è napoletanissimo. Ma il motivo principale è che Napoli è all’origine di tanti (sotto)generi cinematografici che rimontano all’epoca in cui, dal dopoguerra almeno fino agli anni Settanta, i film dialettali, dalle sceneggiate ai film di camorra con Mario Merola, venivano distribuiti quasi solo al Sud, destinati a un pubblico popolare abituato da decenni a gustarsi sceneggiate teatrali e canzoni di giacca costruite come piccole sceneggiature – infatti un regista colto come Tonino De Bernardi una ventina d’anni fa fece un film molto singolare, Appassionate, che metteva in scena una canzone di passioni forti, Cinematografo. Perciò venire a Napoli per i Manetti ha significato poter aggiungere ulteriori tasselli con cui arricchire il loro già nutrito vocabolario di stili.
In Song ’e Napule l’escamotage del protagonista, il cantante neomelodico dal cuore d’oro Lollo Love, permetteva di contestualizzare e giustificare l’uso delle canzoni nel film. Ma la verosimiglianza in Ammore e malavita viene tranquillamente messa da parte: e il film comincia, in maniera comicissima e grandiosa, con un poveraccio ormai defunto (Carlo Buccirosso) che dall’interno della cassa da morto si chiede, cantando, chi siano gli sconosciuti intervenuti al suo funerale.
Qui in un colpo solo c’è la rottura di qualunque realismo e la sovrapposizione nell’uso dei generi, perché siamo già dentro un musical nerissimo che s’intreccia con una storia di malavita – dopo poco capiremo che a seguire il feretro è donna Maria (Claudia Gerini, che supera la prova del dialetto), moglie del boss don Vincenzo (sempre Buccirosso) detto ’O rre d’ ’o pesce, il quale ha fatto uccidere quel disgraziato approfittando della sua straordinaria somiglianza con lui, in modo da far credere d’essere morto e squagliarsela con la consorte per godersi finalmente la vita.
E se guardiamo le recentissime cronache, che hanno portato alla ribalta il matrimonio del cantante neomelodico Tony Colombo con la vedova d’un camorrista, con tanto di sfilate di carrozze e giocolieri a Secondigliano e concerto/flash mob a piazza Plebiscito, viene da pensare che Ammore e malavita è riuscito persino a prevederla questa bizzarra commistione di riti sacri, canzoni napoletane e criminalità, di realtà che diventa un po’ cinema e un po’ reality.
Il film si snoda all’insegna d’una sbrigliata accumulazione di stili che, inevitabilmente, finisce per sconfinare nella bulimia incontrollata. Il punto è che l’assassinio del capro espiatorio di cui sopra, commissionato al glaciale killer Ciro (Morelli), ha una testimone, l’infermiera Fatima (Serena Rossi) che riconosce don Vincenzo. Ciro dovrebbe uccidere anche lei: solo che si tratta della sua fidanzatina dei quindici anni, e ora il killer deve decidere tra la fedeltà al clan e quella al ragazzo dai sentimenti puliti che è stato una volta.
Di volta in volta Ammore e malavita è un nerissimo romanzo criminale pieno di morti ammazzati, action e thriller tra Tarantino e Hong Kong, fotoromanzo sentimentale (la storia di Ciro e Fatima), sceneggiata con folli siparietti kitsch – la comparsata dell’icona della canzone di malavita Pino Mauro –, trasferte newyorkesi e contrabbandieri in motoscafo. Il tutto sempre frullato a ritmo di musical con la colonna sonora del cantautore partenopeo Nelson, Pivio e Aldo De Scalzi. La musica è il basso continuo che dà ritmo al racconto, come dimostrato anche dalla presenza di cantattori a sorpresa come Raiz e il neomelodico duro Franco Ricciardi – mentre non sorprende più, ovviamente è un complimento, il talento canoro e d’attrice di Serena Rossi, che si esibisce anche in una divertente versione napoletanizzata di What a feeling da Flashdance.
Ammore e malavita è un pastiche sfrenato: dura troppo sì, ma ha un gran senso dello spettacolo, con qualche graffio satirico – la “Scampia Disco Dance” coi turisti elettrizzati all’idea di subire lo scippo godendosi l’emozione verace della “ultimate touristic experience” di fronte alle Vele – e l’innegabile gusto del fare cinema, che dà vita a un racconto d’amore e morte insieme drammatico, buffo, romantico, che trascina e fa ridere nello stesso momento in cui commuove e spaventa.