Come sopravviveremo a tutto questo?
No, non sto parlando dei problemi climatici che, giustamente, hanno spinto per la prima volta in piazza, per la prima volta globalmente, la generazione dei ragazzini, sulla falsa riga dell’eroina per caso Greta.
Sto parlando di musica, il campo del quale mi occupo in generale, e più nello specifico mi occupo in queste pagine.
E sto guardando con preoccupazione a quel che ci aspetta in futuro. Più nello specifico, mi sto chiedendo, a voce alta, se esisterà un futuro.
Perché è chiaro, o almeno a me è chiaro, che così non si potrà andare avanti ancora a lungo.
Chiamatemi Cassandra, sarò la vostra preveggente.
Tutti parlano, un po’ a sproposito, di esplosione della discografia, della rinascita della discografia.
Si dice, questa la vulgata, che Spotify abbia in qualche modo preso un mercato morto o morente e lo abbia non solo defibrillato, ma spinto verso numeri che, sulla carta, erano inimmaginabili. Così, se fino a ieri c’era una tendenza inesorabile verso il basso, oggi si ipotizza non solo una ripresa seria, con i numeri del passato, e per passato parlo di quando c’era il fisico, tornati quelli se non di oggi almeno di domani. Ma è al dopodomani che si guarda con l’acquolina in bocca, con quegli stessi numeri, si parla di miliardi di dollari, decuplicati. Centinaia di miliardi di dollari di indotto, non so se mi spiego.
Come fossimo di colpo nell’Eldorado, e tutto grazie all’intuizione di due giovani svedesi, due nerd, capaci di cogliere quella che ai loro occhi sembrava una ovvietà: non bisognava vendere un aggeggio con cui ascoltare musica per salvare la musica, vedi il tentativo nobile e cool di Steve Jobs con l’iPod, ma semplicemente un servizio.
Unico modo, questo dicevano, per far pagare la musica online, quella che per tutti ormai era gratis. Vendere un servizio utilizzabile volendo anche con lo smartphone, quindi un catalogo ragionato di canzoni, le famose Playlist, non le canzoni stesse. Si sarebbe passati, questa sempre l’idea, dalla musica liquida, quella digitale dei download, a quella vaporizzata dello streaming.
Solo che, mentre per dirla con Mr Wolf ci si fa pompini a vicenda, ecco saltare fuori un primo serio problema, in questa esplosione di streaming, con la musica mai come oggi presente sempre e ovunque, gli unici a guadagnarci poco sono quelli che la musica la fanno, la scrivono, la compongono, la cantano. Gli artisti, insomma, pagati il corrispettivo di quattro fichi secchi in prossimità delle famose nozze.
Altro piccolo problema, il fatto che questo servizio sia utilizzabile sempre e comunque e ovunque, quasi sempre, comunque e ovunque con strumenti non nati per ascoltare musica, ha portato uno stuolo di produttori, non artisti, si badi bene, ma produttori, a ipotizzare una musica fatta ad hoc per gli smartphone, cioè musica bidimensionale, sprovvista di buona parte di quelle ricche caratteristiche che fanno della musica una delle forme d’arte più dirette e al tempo stesso complesse. Questo ha sì portato a un’esplosione di musica sempre, comunque e ovunque, ma di musica fondamentalmente destinata a un consumo veloce, tipico per altro di questa epoca iperconnessa e frammentata, da deficit dell’attenzione, e quindi altrettanto destinata a non rimanere nel tempo.
Intendiamoci, non ho la bacchetta magica, né la palla di vetro, mi limito a squartare cuccioli di animali e leggerne le interiora, come tutti, quindi non ho certezza scientifica di quanto vado ora affermando, ma la fruibilità veloce e distratta cui la musica d’oggi sembra votata lascia prevedere una durata piuttosto breve e limitata nel tempo.
Tradotto, non stiamo lavorando a nessun catalogo futuro.
Se guardando alle classifiche di vendita, fino a che non è entrato in ballo lo streaming, ma anche a tratti dopo, si poteva notare ancora in classifica l’ormai classico The Dark Side of the Moon dei Pink Floyd, per dire, era in virtù del fatto che i Pink Floyd, ormai quasi cinquant’anni fa, poco meno, lo hanno composto e inciso. Un classico. Un album da catalogo. E per altro il catalogo ha sempre tenuto in vita la discografia, grazie alle sincronizzazioni, vedi colonne sonore dei film, degli spot, varie e eventuali. Oggi non ci sono i Pink Floyd. Non solo perché non ci sono in effetti i Pink Floyd. Ma perché non si cerca a musica che sia principalmente di qualità, destinata a rimanere anche se magari non baciata nell’immediato dal successo, e non è comunque il caso dei Pink Floyd.
Non è una questione di bei tempi andati, di conflitti generazionali, di si stava meglio quando si stava peggio. È proprio una faccenda di mercato. Si punta all’oggi, distratto e velocissimo, e chi se ne frega del domani e tanto più del dopodomani.
Doppio problema, quindi, gli artisti di oggi portati alla fame, disperati e ultimamente anche incazzati, fatto che li sta portando a alzare la voce verso i nuovi schiavisti, da una parte. La scarsa attenzione al domani, già per altro ben presente nel punto precedente, dall’altra.
Tutto in mano a un manipolo di nerd, quelli che compilano le tanto famose Playlist di Spotify, responsabile di circa un terzo degli streaming della piattaforma. Fanculo l’arte, amici miei.
Il che, ovviamente, da appassionato di musica, ma ancor di più da critico musicale che, proprio per questa triste china presa dal comparto musicale negli ultimi anni si è dovuto dedicare sempre più a raccontare la macchina invece che le canzoni, mi ha portato a guardare al domani con lo sguardo terrorizzato di chi intravede i primi segni dell’apocalisse.
E torniamo all’incipit di questo pezzo: come sopravviveremo a tutto questo?
Nel senso, come si andrà a finire?
Molti guardano ai concerti con la speranza di chi pensa che stare aggrappati a un’asse di legno in mezzo all’oceano sia cosa buona e giusta, o quantomeno saggia, ma è evidente che non può essere il live a salvare la discografia.
Non fosse altro che perché la discografia ha, da che esiste la possibilità di incidere musica, sovvertito le priorità del comparto musica. Prima la musica veniva scritta per essere suonata dal vivo. Poi la si è cominciata a incidere e la musica è stata composta, parlo di quella leggera, direttamente pensando a come sarebbe uscita nei vari supporti che nel tempo hanno reso fruibile le incisioni, dal vinile alle audiocassette, passando per cd, downolad e ora streaming. Al punto che la musica che poi veniva eseguita dal vivo era la versione pensata per il live della musica incisa, e non più viceversa. Ma questi sono dettagli. Il vero punto è che non tutta la musica è eseguibile dal vivo. E che alcuni artisti non solo non possono eseguire la propria musica dal vivo per mere ragioni tecniche, ma magari perché non vogliono, gli sta sul cazzo l’idea di avere gente intorno, sono misantropi, o magari sono morti.
E torniamo al discorso dei cataloghi.
Semmai, e qui potrebbe essere davvero un’ipotesi concreta, seppur appunto apocalittica, si potrebbe tornare a fare la musica solo dal vivo, come in passato. Con i ricchi, gli imperatori, che hanno i compositori a corte, e i poveri che si accontentano di avere i suonatori popolari, in mezzo quelli che studiano musica che le musiche se le suonano da soli.
Non uno spettacolo edificantissimo, converrete. Ma pur sempre meglio che la fine del mondo, tutta cavalieri della morte, serpenti e palle di fuoco.
Ecco, fare l’escatologia della discografia non era esattamente nelle mie intenzioni quando ho iniziato a studiare, e tanto meno quando ho iniziato a praticare la critica musicale.
Ma nessuno si pensa come profeta, credo.
Ti capita.
Lo capisci.
Lo fai.
Amen.
Ricordatevi che dovete morire, allora.
Presto.