È morto a 82 anni dopo una breve malattia Albert Finney, uno dei più incisivi attori britannici degli ultimi sessant’anni. Nato nel Lancashire, nel 1936, proveniva dalla working class, ed era dunque la figura ideale per incarnare le inquietudini della nuova generazione di giovani inglesi che si riconoscevano, a partire dai tardi anni Cinquanta, nei drammi teatrali degli “angry young man” – un gruppo di drammaturghi con capofila John Osborne, l’autore di Ricorda con rabbia – e poi nel Free Cinema degli anni Sessanta.
Albert Finney veniva dal teatro, s’era diplomato alla Royal Academy of Dramatic Art di Londra nel 1955, e dopo l’esordio con il Birmingham Repertory Theatre nel 1956, come Bruto nel Giulio Cesare di Shakespeare, aveva riscosso i primi successi con la Royal Shakespeare Company nel registro drammatico e anche con ruoli brillanti, come quello della commedia musicale The Lily White Boys, nel 1960, messa in scena da Lindsay Anderson.
Era stato già un “giovane arrabbiato” a teatro, nella parte principale di Billy il bugiardo, ma fu il Free cinema, a partire dal 1960 il luogo dove impose il suo stile irruento ma capace di notevoli sottigliezze. Dopo una piccola parte ne Gli sfasati, fu il protagonista di Sabato sera, domenica mattina (1960) di Karel Reisz, il film capostipite del movimento, tratto da un romanzo di Alan Sillitoe, in cui interpreta un giovane seduttore frenato dalla sua condizione proletaria, un ruolo ricco di sfumature, perfettamente rese da un Finney già maturo e consapevole dei suoi mezzi, attraverso cui si racconta in chiave demistificante la società inglese dell’epoca.
Subito dopo venne Tom Jones (1963) di Tony Richardson, tratto dal classico di Henry Fielding sceneggiato da John Osborne, un film in costume che restituiva un’Inghilterra settecentesca tutt’altro che ingessata, un ritratto satirico e vitalissimo pieno di umori carnali e gusto per la vita, che nella parte del protagonista Albert Finney rese in maniera impeccabile. Basti pensare alla celebre, citatissima sequenza della cena, in cui Tom Jones e la sua commensale manifestano i proprio appetiti sessuali proprio attraverso un cibo consumato in maniera più che equivoca. Un film all’insegna d’un rinfrancante libertinaggio, sorta di evoluzione ironica del Free Cinema, ma sempre sottilmente critica, che conobbe uno straordinario successo internazionale, vincendo l’Oscar come miglior film e regalando a Finney la sua prima nomination (ne collezionerà 5 nella sua carriera, purtroppo non vincendo mai la statuetta).
La reputazione di Albert Finney a quel punto, era quella di una vera star. Cosa che non lo spinse però a disperdersi in progetti smaccatamente commerciali. Continuò a selezionare con una certa cura i suoi ruoli, scegliendosi quasi sempre dei caratteri di personaggi in crisi, come lo splendido protagonista di Due per la strada (1967) di Stanley Donen, nel quale con Audrey Hepburn forma una coppia sul punto di separarsi. Il film ne ripercorre le traversie sentimentali, sfociando in un ritratto pungente e dolceamaro della vita matrimoniale che è tra i più esatti e coinvolgenti che si siano mai visti sullo schermo, anche grazie a due attori in stato di grazia.
Nello stesso anno L’errore di vivere fu anche l’unico esperimento di Albert Finney da regista, sottovalutato ma efficace ritratto di uno scrittore di successo, da lui stesso interpretato, consumato però dal senso del fallimento e dai difficili rapporti con i suoi familiari. Nel 1972 produsse e interpretò Sequestro pericoloso, primo film di un regista destinato a grandi cose, Stephen Frears, e nel 1974 interpretò con grande ironia l’investigatore Poirot nella versione di Sidney Lumet del classico Assassinio sull’Orient Express di Sidney Lumet, che gli valse la seconda nomination come miglior attore.
Nella sua lunga ma attenta carriera Albert Finney ha sempre saputo trovare pochi, selezionati ruoli all’altezza del suo talento. Per gli anni Ottanta possono segnalarsi il vecchio attore di teatro all’ennesima replica del Re Lear in Servo di Scena (1983), altra nomination, in cui conduce un gioco a due di alta scuola britannica accanto a Tom Courtenay, altro volto iconico del Free Cinema. L’anno successivo è la volta di Sotto il vulcano di John Huston (quarta nomination), tratto dal romanzo di Malcom Lowry, parabola autodistruttiva su un uomo che annega nell’alcool il dolore per l’abbandono della moglie.
Gli anni Novanta si aprono con lo straordinario ruolo del boss ebreo in Crocevia della morte (1990), raffinatissima variazione sul tema del noir dei fratelli Coen – a conferma del fatto che Finney ha sempre saputo scegliere molto bene i suoi registi, individuando anche quelli nuovi di sicuro talento – e si chiudono con Erin Brockovich – Forte come la verità di Steven Soderbergh, in cui è l’avvocato di mezza tacca che assume una segretaria che sa trovare le prove per mettere in ginocchio una grande società corrotta. Un altro brillante duetto d’attori che diede a Julia Roberts l’Oscar, mentre Finney dovette accontentarsi della quinta nomination.
Negli anni Duemila scegliamo altri due titoli straordinari, che confermano anche in tarda età il talento e la misura di Albert Finney: Big Fish (2003) di Tim Burton, dove interpreta, da anziano, Edward Bloom (da giovane è Ewan McGregor), un uomo innamorato della forza inventiva della parola, un umanista che crede al potere salvifico della fantasia come guida della vita; agli antipodi, invece, è Onora il padre e la madre (2007) di Sidney Lumet, agghiacciante ritratto di una famiglia in cui i due figli maschi escogitano un piano per svaligiare la gioielleria del padre Albert Finney, una storia pessimista e senza speranza in cui l’attore inglese è ancora al meglio del suo multiforme talento recitativo. Gli ultimi suoi ruoli, nel 2012, furono negli action The Bourne Legacy e Skyfall di Sam Mendes, uno dei migliori Bond movie di sempre, in cui Finney incarna una sorta di figura paterna dell’agente segreto.