Fabrizio Moro contro i colleghi cantautori e senza mezzi termini. Sentito da Vanity Fair a qualche giorno dal debutto allo Stadio Olimpico della sua Roma, l’artista di Parole, Rumori e Anni ha voluto rimarcare la netta differenza tra la sua maniera di scrivere e quella di altri grandi nomi della musica italiana.
Il cantautore romano non rinnega il passato, ma lo ritiene il più valido strumento di crescita che abbia utilizzato in questi lunghi anni di gavetta, nei quali le zappate sui piedi sono state tante: “Ci sono stati anni in cui ero sempre in****ato”.
Non nega un lungo periodo di frustrazione, di quelli atti a rovinare il mondo, e da qui nasce il suo pensiero su alcuni dei suoi colleghi cantautori, troppo asserviti al sistema:
“Parecchi miei colleghi cantautori romani che scrivono solo testi pieni di poesia compongono nella villa al mare ereditata dal papà, coi tappeti persiani e i camerieri coi guanti bianchi. Normale che non ce l’abbiano con il sistema”.
Fabrizio Moro racconta quindi dell’infanzia trascorsa nel quartiere romano di San Basilio, con un nonno contadino e un padre carrozziere. Un posto bellissimo, a suo dire, fatto di case popolari e di baracche nelle quali ha trascorso gli anni migliori della sua infanzia.
La rabbia inizia in età adolescenziale, quando non si sentiva bravo in niente e decide di lasciare la scuola nonostante fosse sempre stato promosso: “Pensavo a tutte le cose che non potevo avere, materiali ed esistenziali, perché non avevo soldi”.
La rinascita arriva in maniera inaspettata, quando Fabrizio Moro trova il modo di essere felice e realizzare i suoi sogni. Svelato anche il suo film preferito, Rocky, che è riuscito a realizzare quanto desiderava con l’amore: “Quello è il mio film preferito. Se, da bambino, non l’avessi visto, credo che non avrei mai fatto il cantautore”.
Il prossimo appuntamento con Fabrizio Moro è segnato per il 16 giugno, alla curva dell’Olimpico, per la prima data del tour a supporto di Parole, Rumori e Anni.